ALL’INTERNO:
“Rapporto sulla logistica” di G. Corò / Z. D’Agostino

A cura di

Giancarlo Coró
docente di Economia Regionale
all’Universitá di Urbino
Zeno D’Agostino
Consulente di Logistica ed Innovazione

Coordinamento

Giorgio Casoni
Coordinamento della Promozione
Settore Promozione
della Camera di Commercio di Mantova

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Sommario

1°: Servizi e infrastrutture logistiche per lo sviluppo economico locale: uno scenario di riferimento

1.1. Linee di evoluzione delle attività logistiche a servizio delle imprese

In una accezione moderna, la logistica consiste in quell’insieme di attività che presidiano la movimentazione di merci, persone e informazioni all’interno di una rete produttiva estesa. Rispetto all’idea tradizionale che individuava nella logistica una funzione esclusivamente interna alle aziende (stoccaggio dei prodotti, attrezzaggio delle linee produttive, gestione dei magazzini) si è affermata negli ultimi decenni una concezione molto più aperta e complessa di logistica: quella di infrastruttura operativa della supply chian, ovvero come sistema che gestisce i collegamenti nei flussi fisici e informativi di una pluralità di imprese che partecipano ad una precisa catena del valore. In questa prospettiva, la logistica non è più solo un’attività sussidiaria alla produzione ma una modalità che consente di ridisegnare le relazioni di fornitura e distribuzione, di coordinare le attività manifatturiere e di servizio fra imprese localizzate in aree lontane e di accorciare le distanze operative della produzione con gli utilizzatori e il consumo finale.
Già da questa prima definizione si può comprendere la rilevanza che l’organizzazione logistica riveste per la competitività delle imprese e dei sistemi produttivi locali. Ciò vale, in particolare, per i sistemi di piccole e medie imprese specializzati nella produzione di beni differenziati e di qualità con forte propensione all’export – sistema moda, sistema casa, filiera agroalimentare, meccanica strumentale e di precisione – che costituiscono la struttura principale dell’industria mantovana. Ma vale anche per settori di servizio come il commercio, il turismo, il sistema bancario e assicurativo, che movimentano elevati volumi di contatti fisici, personali e informativi spesso concentrati all’interno di aree in cui la mobilità ha raggiunto livelli di congestione difficilmente superabili, rappresentando, perciò, uno dei principali limiti allo sviluppo futuro. Per questi settori industriali e di servizio l’organizzazione logistica diventa perciò una componente fondamentale delle strategie competitive.
Tuttavia, per le imprese di dimensione minore l’evoluzione della logistica rischia di tradursi più in una minaccia che in un’opportunità. La riorganizzazione della logistica sta infatti facendo emergere l’importanza delle economie di scala sia dal lato dell’offerta che della domanda.
Guardando all’offerta si può osservare come l’efficienza del servizio logistico dipenda sempre più dalla disponibilità di mezzi, flotte, infrastrutture e tecnologie in grado di movimentare elevati volumi di merci e documenti con tempi di consegna garantiti e con modalità di trattamento e conservazione dei prodotti congruenti con la specificità delle singole filiere.
Ciò sta portando ad una selezione nel settore tradizionale dell’autotrasporto e ad una forte concentrazione degli operatori logistici, con la formazione di gruppi multinazionali che mettono a disposizione delle imprese un insieme di servizi completi door-to-door: e di gestione integrata della catena: dagli approvvigionamenti fino alla consegna finale delle merci, passando per lo stoccaggio, il trattamento dei prodotti, nonché l’organizzazione dei servizi amministrativi e informativi. Dal lato della domanda le economie di scala della logistica sono riconducibili al concetto di “esternalità di rete”, nel senso che la possibilità di ottenere un adeguato servizio logistico – in termini di costo ed efficienza – dipende dall’adozione di precisi standard informativi, organizzativi e di carico che consentono di integrare le proprie esigenze di movimentazione con quelle di altre imprese appartenenti alla stessa filiera o a filiere congruenti.
Se le grandi imprese industriali e i maggiori gruppi commerciali hanno generalmente una dimensione sufficiente per giustificare un efficiente servizio in conto proprio o per favorire investimenti dedicati da parte dei global player della logistica, nel caso delle piccole imprese la situazione è invece molto diversa. Da un lato, le limitate dimensioni produttive non consentono di organizzare un adeguato servizio conto proprio né per le attività di trasporto, tanto meno per quell’insieme di funzioni complesse che oggi caratterizza una catena logistica completa; dall’altro anche l’esternalizzazione delle attività logistiche rischia di risultare troppo costoso, in quanto gli operatori specializzati tendono ad organizzare la propria offerta di servizi sulle tracce dei caricatori principali, lasciando a quelli minori spazi marginali (slot liberi di magazzinaggio e trasporto) a costo pieno.
Ma soprattutto, se le piccole imprese continueranno ad agire in modo isolato su un mercato di servizi in rapida evoluzione, rischiano di perdere i vantaggi di un sistema logistico che potrebbe invece valorizzare la capacità di rispondere in modo flessibile e differenziato a quella domanda di varietà e variabilità sulla quale hanno costruito la propria competitività.

1.2. Crescita della mobilità delle merci fra tendenze globali e soluzioni locali

Se la logistica va dunque interpretata come infrastruttura tecnica e organizzativa della produzione estesa, la sua evoluzione deve essere seguita con molta attenzione da parte delle istituzioni di politica economica che intendano assumere l’obiettivo di valorizzare il tessuto locale di piccole e medie imprese industriali e di servizio presenti sul proprio territorio. Per quanto le trasformazioni in atto nel campo della logistica siano solo all’inizio, le tendenze verso un ridisegno delle condizioni di vantaggio competitivo che queste trasformazioni comportano si stanno manifestando con sempre maggiore evidenza.
Il forte incremento della mobilità delle merci – sia di breve come di lungo raggio – è un dato difficilmente controvertibile. Le stime effettuate dalla Commissione Europea indicano per il 2010 un incremento del traffico merci del 40%, gran parte del quale – in assenza di convinti interventi per il riequilibrio modale – si scaricherà sulle attuali infrastrutture stradali, aggravando una situazione di congestione che lungo alcuni assi ha già raggiunto soglie limite.
L’area mantovana si trova inoltre collocata in una peculiare posizione geo-logistica, essendo interessata sia allo sviluppo dei flussi di attraversamento terrestre est-ovest, cresciuti in modo consistente dopo l’apertura delle economie dell’Europa orientale, sia all’intensificazione dei collegamenti intercontinentali che interessano il Mediterraneo.
Il Canale di Suez è infatti un punto di passaggio sempre più importante dei traffici deep-see con l’area del Pacifico: dai porti dell’Adriatico e del Tirreno sono perciò destinati a crescere i flussi di interscambio con il Centro e Nord Europa, che costituiscono un’alternativa ai tradizionali collegamenti atlantici del Northern Ring. Se in questo quadro – come ha messo in luce il recente Piano Generale dei Trasporti – la penisola italiana si troverà a svolgere il ruolo di piattaforma logistica intercontinentale, l’area mantovana rappresenterà uno dei punti di passaggio dei collegamenti terrestri con il Nord Europa, la cui crescita maggiore interesserà soprattutto l’asse del Brennero.
Per quanto possa sembrare paradossale, non è affatto sicuro che questa situazione si traduca in un vantaggio logistico. In realtà, la capacità di catturare il valore aggiunto dei flussi di traffico dipende dallo sviluppo di adeguati servizi e strutture logistiche in grado di organizzare in modo razionale le attività connesse alla movimentazione di merci.
A rendere critica la situazione c’è il fatto che, rispetto al resto d’Europa, l’Italia sconta gravi ritardi nella realizzazione della propria rete infrastrutturale: basti considerare che negli ultimi 25 anni, a fronte di una crescita di 20 volte del volume di merci trasportate (dai 150 miliardi tonnellate/chilometro di metà degli anni ’70 ai quasi 3mila miliardi attuali), gli investimenti sulle infrastrutture di trasporto si sono progressivamente ridotti sia in rapporto al Pil (da 1,4% allo 0,2%) che alla spesa pubblica (dal 25% al 5%).
A rendere difficile l’adeguamento della rete infrastrutturale non sono solamente i vincoli di bilancio ma anche la particolare complessità decisionale che inevitabilmente si manifesta su un territorio ad alta densità insediativa, qual è quello dell’Italia settentrionale, nel quale la diffusione di attività residenziali e produttive crea, allo stesso tempo, maggiori problemi di mobilità e maggiori difficoltà a realizzare soluzioni infrastrutturali.
Non è questa la sede per entrare nel merito delle controverse ipotesi di intervento sulla rete infrastrutturale che interessano l’area mantovana; ciò che sembra giusto sottolineare è che la concreta prospettiva di incremento dei flussi di attraversamento dai porti del Tirreno all’asse del Brennero, renderà la situazione degli attuali collegamenti stradali e ferroviari difficilmente sostenibile.
E questo richiede fin da subito non solo una capacità di decisione e attuazione degli interventi da parte delle istituzioni locali ma anche una volontà di dialogo e cooperazione con altre realtà e livelli istituzionali, così come con operatori del trasporto a scala molto più ampia.
D’altro canto, la forte crescita della mobilità è anche il risultato di trasformazioni economiche e sociali in cui le distanze fra luoghi di produzione e consumo tendono sempre più a dilatarsi. Questo fenomeno è sospinto da un insieme di processi fra loro convergenti sui quali, anche ammesso fosse desiderabile contrastarli, i margini di azione a livello locale sono, di fatto, scarsamente influenti. In particolare, si possono segnalare tre forze principali che spingono in direzione di una estensione spaziale delle relazioni produttive e di mercato:

  1. tecnologiche, in particolare a seguito delle straordinarie innovazioni nel campo dei sistemi di comunicazione e dei trasporti, che hanno contribuito a ridurre le distanze geografiche e i costi di trasferimento delle informazioni nelle catene di fornitura e fra produttori e consumatori finali;
  2. organizzative e di mercato, con lo sviluppo di reti produttive sempre più fluide ed estese a scala globale, e con l’entrata nel mercato dei fattori e dei prodotti di nuove regioni dell’economia-mondo un tempo escluse dalla divisione internazionale del lavoro;
  3. politiche e istituzionali, che stanno portando ad una progressiva riduzione (e in alcuni casi, come in Europa, alla eliminazione) delle barriere tariffarie e non tariffarie fra economie nazionali, ampliando in questo modo lo spazio delle relazioni produttive e di mercato a cui imprese e consumatori possono liberamente accedere.

In questa prospettiva c’è il serio rischio che lo sviluppo della logistica possa rappresentare per alcuni sistemi locali più una minaccia da subire che un’opportunità da cogliere in termini di crescita economica e benessere sociale. Oltre ai problemi di impatto ambientale delle esternalità connesse ai trasporti, tale situazione sta infatti prospettando una crescita tendenziale dei costi logistici che solo le imprese più strutturate riusciranno ad assorbire attraverso una riorganizzazione a scala internazionale della propria catena di fornitura e distribuzione, nonché a seguito di elevati investimenti sulle tecnologie di rete.
Una situazione nella quale sono evidenti i costi ambientali e molto meno i vantaggi economici potrebbe ingenerare nelle società locali una reazione essenzialmente rivendicativa, con conseguenze che, se non affrontate per tempo, potrebbero portare a processi di deterioramento delle condizioni localizzative.
Ma è proprio questo il punto da cui partire per la definizione di una strategia di innovazione logistica per l’area mantovana: come trasformare un possibile vincolo localizzativo in un’occasione per accrescere la competitività del territorio e, allo stesso tempo, contribuire a rendere il sistema di logistica-trasporti più sostenibile e razionale dal punto di vista ambientale.

1.3. Implicazioni di un approccio logistico ai problemi dello sviluppo territoriale

Affrontare i problemi della mobilità da una prospettiva logistica comporta alcune conseguenze in termini sia concettuali che operativi. Innanzitutto significa affiancare la tradizionale attenzione ai problemi di “dotazione infrastrutturale” con un’analisi dei processi organizzativi delle attività di produzione e consumo, ricercando modalità che aumentino l’efficienza nella gestione dei flussi fisici sia mediante una maggiore integrazione con quelli informativi, sia con interventi di razionalizzazione delle diverse attività nelle quali si compone la filiera logistica. Lo stesso sviluppo di sistemi di trasporto a maggiore efficienza infrastrutturale e ambientale – in particolare quello ferroviario – è da collocare all’interno di questa prospettiva di riorganizzazione dei processi logistici. Un aspetto importante da considerare è che le attività logistiche stanno evolvendo verso funzioni a valore aggiunto che fino a poco tempo fa erano considerate di semplice supporto ai cicli produttivi. Sempre più la logistica tende infatti ad integrare le tradizionali attività di magazzinaggio e trasporto con altre importanti funzioni produttive. Tra queste vale considerare almeno le seguenti:

  • la gestione intelligente degli approvvigionamenti, che presuppone l’utilizzo esteso di nuovi sistemi informativi, come ERP, portali B2B e piattaforme di e-procurement basate su protocolli Internet;
  • il cross-docking, gestione integrata dei magazzini per più operatori, per ottenere economie di scala nell’utilizzo degli spazi e dei sistemi di stoccaggio delle merci;
  • il material handling, cioè l’attività di smistamento, consolidamento e deconsolidamento dei prodotti che attraversano un punto di transito;
  • il finissaggio, il quasi-manifacturing e il packaging, per controllare la qualità, assemblare i prodotti o completare il confezionamento delle merci nei luoghi prossimi all’utilizzo finale o in relazione alle esigenze di “posticipazione e fluidificazione” (just-in-time) del processo produttivo;
  • la gestione integrata degli ordini (fullfilment), dei prelievi e della distribuzione dei prodotti (pick up and delivery) attraverso servizi espressi (compresi quelli postali o da essi derivati) che operano a scala globale sulla base di logiche organizzative del tipo hub and spoke (prelievi e distribuzione a raggiera sul territorio per alimentare nodi di interscambio sulle lunghe distanze) fornendo garanzie sui tempi e i modi di consegna e la possibilità di un continuo controllo informativo sul posizionamento della merce (traking and tracing);
  • la gestione dei resi, compresa la reverse logistics, cioè l’organizzazione dei flussi di recupero, ricondizionamento o smaltimento dei prodotti e degli imballi;
  • il pallets e container pooling, intese come attività di ottimizzazione dell’uso dei contenitori per il magazzinaggio e il trasporto a servizio di più utilizzatori;
  • la gestione dei servizi amministrativi, assicurativi e doganali per il trasporto, i rapporti post-vendita, la gestione dei flussi informativi e comunicativi lungo tutta la catena.

Si tratta di un insieme di attività alle quali le imprese manifatturiere e di servizio guardano con crescente interesse, e che sempre più spesso vengono svolte in outsourcing da operatori logistici specializzati che operano a livello internazionale con mezzi, infrastrutture e tecnologie di comunicazione e automazione molto sofisticate.
Gran parte del valore economico creato nelle catene logistiche viene oggi catturato da queste nuove attività piuttosto che nella semplice gestione dei flussi di trasporto e movimentazione. Un calcolo effettuato dal Ministero dei Trasporti mostra che nella movimentazione di 1000 containers il fatturato generato dalla sola funzione di trasporto ammonta a 600 milioni, mentre se a queste si aggiungono le altre attività logistiche il valore cresce a 4600 milioni. Allo stesso tempo l’utile passa da 50 a 370 milioni e l’occupazione da 5 a 42 posti di lavoro.
Perciò, le infrastrutture in grado di generare sviluppo economico e occupazionale sul territorio – e che forniscono alle imprese servizi a valore aggiunto – non sono più quelle dove le merci transitano o vengono momentaneamente stoccate (come i porti, gli interporti o gli aeroporti, nonché gli assi di collegamento) bensì dove le merci vengono organizzate, trattate, arricchite di lavoro, servizi, informazioni: cioè nei retroporti, negli inland terminal, nei distripark, nelle piattaforme logistiche degli operatori più qualificati. Solo laddove le infrastrutture di transito sono affiancate da piattaforme logistiche gestite in modo imprenditoriale si raggiunge una condizione stabile di sviluppo per il territorio, fornendo anche un insieme di servizi di supporto all’economia locale. Ed è anche sviluppando una organizzazione più efficiente e professionale dei servizi logistici che si possono raggiungere migliori standard ambientali connessi a tali attività.
Vi sono allora due immediati risvolti operativi da considerare per un piano di azione su questo settore: il primo è che una più razionale organizzazione logistica della produzione – che aumenti l’efficienza delle attività di movimentazione e ne riduca l’impatto ambientale – non passa solo attraverso una maggiore dotazione infrastrutturale (che, tuttavia, rimane per l’area mantovana una scelta non eludibile) ma anche con lo sviluppo di attività imprenditoriali specializzate e una crescita della capacità di gestione delle informazioni nell’industria e nei servizi; la seconda è che non è possibile affrontare i problemi dell’organizzazione logistica della produzione in termini troppo generali e “aggregati” (come avviene, ad esempio, nell’analisi dei flussi di origine e destinazione) bensì in relazione a specifiche “filiere industriali”, ognuna delle quali presenta aspetti peculiari da riconoscere e sui quali intervenire.
E’ quest’ultimo, in particolare, un aspetto importante da considerare per l’economia mantovana, poiché al suo interno sono attive diverse filiere produttive che esprimono problemi logistici non equivalenti, e che richiedono perciò soluzioni mirate. Approfondiremo questo tema, con specifico riferimento a due filiere di particolare rilievo produttivo per l’economia mantovana nel capitolo 3.

1.4. Opportunità di sviluppo logistico per l’area mantovana

Un piano di sviluppo della logistica rientra, dunque, nel campo della politica industriale oltre che in quello della politica dei trasporti e delle infrastrutture. Questa distinzione può sembrare solo nominalistica ma, in realtà, comporta per l’analisi e il processo decisionale pubblico alcune rilevanti conseguenze pratiche.
Il problema diventa innanzitutto come favorire lo sviluppo di un mercato dei servizi logistici che aiuti il sistema produttivo locale ad accrescere la propria competitività internazionale e, allo stesso tempo, possa contribuire alla riduzione dell’impatto ambientale delle attività di trasporto. Gli stessi servizi di trasporto ferroviario, a seguito della direttiva Comunitaria 440/91 (integrata dalla 14/2001), stanno aprendo interessanti spazi di mercato per imprese di logistica e nuovi operatori orientati a trasferire su ferro parte dell’attuale traffico su gomma.
Al momento attuale sono ben 11 – oltre a Trenitalia Cargo creata da FS – le imprese ferroviarie che hanno chiesto la licenza per ottenere tracce ferroviarie sulla rete italiana. Questi operatori – la cui provenienza viene sia dall’evoluzione del settore delle spedizioni internazionali che dalla trasformazione delle aziende ferroviarie nazionali e di gestione di infrastrutture a rete – sono alla ricerca di spazi operativi all’interno dei quali organizzare le attività di interscambio e trattamento logistico delle merci.
E questo offre interessanti opportunità alle istituzioni locali e ai sistemi di imprese per sviluppare quel mercato di offerta indispensabile alla razionalizzazione economica e ambientale delle attività di trasporto.
Per cogliere appieno queste opportunità è tuttavia necessario sviluppare una più matura cultura logistica nelle piccole e medie imprese e orientare l’organizzazione dei servizi a favore delle filiere produttive rilevanti. Ad esempio, per quanto riguarda l’area mantovana, filiere rilevanti sono senz’altro quelle dell’agro-industria, del sistema moda (abbigliamento, calzetteria), della lavorazione del legno (pallets, pannelli, mobili), della meccanica e della siderurgia.
Da considerare sono anche le filiere del commercio, sia della grande distribuzione organizzata (per l’elevato volume di merci movimentate), sia del dettaglio tradizionale. In quest’ultimo caso la ricerca di sistemi logistici più razionali ed efficienti potrebbe contribuire ad elevare la capacità competitiva nei confronti delle catene commerciali al libero servizio, favorendo inoltre la soluzione di alcuni problemi di congestione soprattutto nella distribuzione all’interno dei centri storici. Così come è necessario prestare attenzione anche a filiere produttive che pur non avendo una significativa presenza nell’area mantovana sviluppano relazioni che ne attraversano il territorio: ad esempio, quelle dell’industria automobilistica (data la vicinanza con la piattaforma veronese), dei materiali da costruzione e della lavorazione dei minerali non metalliferi (piastrelle, marmi, porfidi); degli oli combustibili, dei prodotti chimici e dei materiali pericolosi.
Ognuna di queste filiere presenta problematiche logistiche proprie che vanno dunque analizzate in modo specifico e per le quali vanno ricercate soluzioni organizzative e infrastrutturali congruenti. Per alcune di queste filiere – o per alcune fasi interne alle filiere – esistono forse margini di azione per aumentare l’uso di mezzi di trasporto a minore impatto ambientale, per altre un miglioramento si può ottenere attraverso una più razionale organizzazione dei carichi e dei sistemi di magazzinaggio, per altre ancora potrebbe configurarsi un possibile cambiamento nelle modalità di gestione degli approvvigionamenti e delle reti di distribuzione. In tutti i casi, comunque, l’innovazione logistica passa attraverso un maggior utilizzo di tecnologie di informazione e comunicazione, e cioè di strumenti che favoriscano uno scambio più efficiente fra domanda e offerta di servizi logistici.
Per trovare risposte efficaci è tuttavia necessario “entrare” all’interno dell’organizzazione industriale delle filiere, cercare di comprenderne problemi e tendenze, e favorire con interventi mirati e condivisi una crescita dell’efficienza tecnica e allocativa dei servizi logistici.
Questo non significa che non siano possibili politiche comuni (come ad esempio con un interporto, oppure con servizi di integrazione modale, o ancora con geoportali per il commercio elettronico), ma si tratta di una valutazione da fare solo dopo aver effettuato un’analisi dettagliata delle singole filiere ed aver cercato di coinvolgere nell’operazione gli attori strategici sia dal lato della domanda (cioè i caricatori industriali, le associazioni di rappresentanza delle imprese, i consorzi locali di produzione e di servizio) sia, soprattutto, dell’offerta di servizi logistici (aziende di spedizione, consorzi di trasportatori, operatori multimodali, express courier, logistic service providers, società di gestione delle infrastrutture a rete – stradali, ferroviarie, postali, di telecomunicazione).
Questo coinvolgimento non riguarda solo la fase di concertazione delle politiche pubbliche ma anche le strategie di investimento, in quanto – come mostrano le esperienze di successo – solo tramite assunzione di rischio imprenditoriale si possono creare le condizioni per l’efficacia delle iniziative infrastrutturali nel campo della logistica.
D’altro canto, se la ricerca di soluzioni logistiche più efficienti e a minore impatto ambientale si può ottenere con lo sviluppo di un mercato di servizi innovativi, è necessario incentivare la convergenza sia della domanda che dell’offerta verso queste soluzioni.
Torniamo, in questo modo, a sottolineare l’importanza della politica industriale, attraverso la quale favorire nelle imprese quei processi di innovazione che le dinamiche del mercato, se lasciate a se stesse, non consentirebbero di raggiungere in modo altrettanto efficiente, sia dal punto di vista economico che sociale.

1.5. Tre possibili temi per una strategia di innovazione logistica nell’area mantovana: logistica di distretto, logistica urbana e tecnologie di comunicazione digitale

Dall’analisi condotta attraverso interviste in profondità ad un insieme di attori economici e istituzionali dell’area mantovana sono emersi tre temi riguardanti la logistica sui quali si è ritenuto di effettuare un approfondimento. Il primo tema è relativo alla logistica di filiera o di distretto, intendendo con questo la ricerca di soluzioni tecniche e organizzative per razionalizzare la catena di fornitura e distribuzione di sistemi produttivi specializzati.
La scelta è caduta su due filiere di particolare peso per l’economia mantovana: quella del legno, che sviluppa una significativa presenza localizzativa nel sistema locale di Viadana, e quella della calzetteria, che com’è noto trova nel distretto di Castelgoffredo una delle massime concentrazioni produttive del comparto in Europa.
Il significato di questa scelta e dell’analisi condotta deve venire inteso soprattutto dal punto di vista metodologico: il contributo offerto in questo Rapporto non poteva certo arrivare alla definizione di soluzioni specifiche e immediatamente operative quanto piuttosto all’individuazione di un percorso in grado di prospettare vincoli e opportunità di un progetto di politica industriale per la logistica di distretto, che con opportuni adattamenti potrebbe venire avviato anche per altri sistemi produttivi presenti nell’economia mantovana.
Il secondo tema – emerso soprattutto dalla discussione con le associazioni di rappresentanza delle imprese commerciali – è quello della logistica urbana o city logistics, intesa come attività di razionalizzazione dei flussi distributivi all’interno dei centri storici.
Il significato di questa scelta risponde a tre obiettivi: il primo è quello di offrire una possibile soluzione agli operatori commerciali al dettaglio per rendere più efficiente il proprio sistema di approvvigionamenti e rispondere ad una sfida competitiva che la grande distribuzione organizzata sta da tempo portando alle reti diffuse delle piccole imprese commerciali; il secondo è quello di affrontare i crescenti problemi di congestione delle aree urbane con soluzioni che non penalizzino la rete commerciale minore e quel tessuto di attività produttive essenziali per la stessa qualità urbana di un centro storico di pregio qual è, in particolare, quello del capoluogo mantovano (ma che può riguardare anche altri centri intermedi della provincia); il terzo obiettivo è quello di sfruttare al meglio le dotazioni infrastrutturali dell’Interporto di Mantova, che come altri interporti di “secondo livello” è nato su presupposti funzionali non sempre corrispondenti alle dinamiche organizzative e di mercato dei servizi intermodali, ma che tuttavia ha sviluppato un insieme di attività logistiche che possono senz’altro risultare utili all’economia locale.
Un terzo tema, assolutamente fondamentale per ogni tipo di politica di innovazione logistica è quello – più volte richiamato in queste pagine e strettamente collegato ai primi due – dell’integrazione dei sistemi informativi delle imprese e dello sviluppo di applicativi del commercio elettronico per favorire l’aggregazione della domanda e un più efficiente scambio con l’offerta di servizi logistici moderni. L’analisi che proponiamo (descritta mediante slides) intende offrire una panoramica dei problemi organizzativi e non solo tecnologici che le diverse soluzioni presenti nel mercato oggi prospettano. A tal fine si è ritenuto utile integrare la rassegna sui sistemi informativi per la logistica con un’analisi sulle trasformazioni degli operatori logistici, indicando le diverse tipologie di servizio – con particolare riferimento ai sistemi di informazione e comunicazione con la clientela – che tali operatori mettono a disposizione delle imprese industriali e commerciali.

1.6. L’interporto di Mantova: obiettivo o strumento di una politica industriale per l’innovazione logistica?

In questo Rapporto si insiste molto su un criterio metodologico che dovrebbe informare l’impostazione degli interventi sull’innovazione logistica per il territorio: più che al campo della politica dei trasporti, la logistica dovrebbe rientrare nell’ambito della politica industriale per l’innovazione, e ciò comporta lo spostamento di attenzione dai tradizionali problemi infrastrutturali a quelli organizzativi e di mercato. A questa scelta metodologica non deve essere attribuito un valore assoluto.
E’ fin troppo intuitivo riconoscere che in assenza, o anche in carenza, di adeguate infrastrutture fisiche per la mobilità e i trasporti, nessuna innovazione logistica ha probabilità di successo. Ciò che si intende sostenere è, tuttavia, che esistono margini di azione nel campo della logistica che possono in una certa misura venire affrontati in modo autonomo dai problemi di dotazione infrastrutturale.
Ad esempio, quando si parla di subalternità logistica delle imprese manifatturiere italiane (giudizio espresso anche nell’ultimo Piano Generale dei Trasporti) non ci si riferisce tanto alla carenza di infrastrutture logistiche e intermodali sul territorio nazionale, quanto alla prevalenza di clausole di consegna (FOB per l’export e CIF per l’import) che di fatto delegano ai buyers stranieri la responsabilità di organizzare la catena logistica. Con tutto ciò che ne consegue in termini di appropriazione del business e crescita delle competenze.
D’altro canto, bisogna considerare che, mediamente, i costi della logistica industriale sono solo per meno di un terzo attribuibili alle attività di trasporto, mentre i rimanenti due terzi si riferiscono a funzioni di magazzinaggio, amministrazione, servizi, handling, finissaggio, informazione, ecc., sulle quali ci siamo soffermati nel precedente parag. 1.4. Come si può vedere dalla tabella qui allegata, per alcuni settori rilevanti per l’economia mantovana – come l’alimentare, i prodotti agricoli, le attività commerciali – e ancora più per le industrie a maggior tasso di innovazione – come l’elettronica o la farmaceutica – il rapporto fra servizi logistici e trasporto risulta ancora più a favore dei primi.

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Un altro aspetto importante è inoltre oggi definito dalla natura immateriale delle infrastrutture strategiche per la logistica, in particolare dalle piattaforme di scambio delle informazioni (per la gestione congiunta degli approvvigionamenti, per l’ottimizzazione delle scorte e dei carichi, per la borsa dei noli, per il controllo a distanza delle merci, per la trasmissione dei documenti, ecc.) basate su sistemi di comunicazione digitale e sviluppate su protocolli standard o dagli applicativi del commercio elettronico. E’ questo un tema sul quale avremo modo di tornare già nel prossimo capitolo e sul quale si fornisce, alla fine di questo rapporto, un ampio resoconto attraverso slides.
In ogni caso, non si intende affatto sottovalutare la questione delle infrastrutture materiali della logistica, soprattutto quelle di “nodo”, riferibili alle attività di stoccaggio, consolidamento dei carichi e interscambio modale. Si tratta senza dubbio di infrastrutture fondamentali, che qualificano la dotazione di un territorio e che offrono opportunità di insediamento per le imprese di servizi logistici e di trasporto.
Ma proprio questo è il punto: infrastrutture come i centri merci e gli interporti non devono costituire un obiettivo in sé quanto piuttosto strumenti di una politica industriale per il miglioramento dei servizi logistici. Evitando il paradosso nel quale troppo spesso i sistemi locali italiani si sono trovati: quello di creare infrastrutture senza imprese, e lasciare le imprese senza infrastrutture.
In questa ricerca, per vincoli di tempo ma anche per scelta metodologica, si è evitato di analizzare a fondo l’esperienza dell’Interporto di Mantova. Tuttavia, dai documenti messi a disposizione si capisce che tale esperienza è nata su presupposti non molto diversi da quelli che hanno accompagnato la realizzazione di altri interporti nelle province italiane. L’idea alla base di tali iniziative era che l’intermodalità dovesse rappresentare uno strumento per dare maggiore efficienza al sistema del trasporto merci, e che per sviluppare una politica per l’intermodalità fosse necessario realizzare su ogni territorio provinciale infrastrutture intermodali. In realtà, questo sillogismo è solo in apparenza lineare: non tutta la domanda di trasporto può trovare risposta nell’intermodalità ma, soprattutto, non è affatto detto che l’intermodalità possa svilupparsi attraverso infrastrutture di scala provinciale.
E, in effetti, gli interporti davvero funzionanti in Italia sono rimasti molto pochi, per una ragione tecnica che si è presto rivelata strategica: l’intermodalità ha bisogno di elevate economie di scala, poiché l’efficienza del servizio dipende dalla possibilità di formare treni blocco frequenti e su direttrici estese, obiettivo questo raggiungibile solo concentrando i flussi su precisi e ben individuati nodi di traffico. Quali sono questi nodi di interscambio che possono interessare le imprese localizzate nell’area mantovana?
Ad un raggio di qualche decina di chilometri se ne individuano almeno quattro: Verona, Bologna, Parma e Padova. Senza aggiungere quello di Milano, che rimane per importanza uno dei principali hub logistici europei.
Nei quattro interporti citati, tutti a gestione mista pubblico-privata, sono disponibili nel complesso quasi 10 milioni di mq di area per i terminal, ai quali si possono aggiungere altri quattro milioni di mq per future espansioni (soprattutto a Verona e Bologna). Le aree coperte per magazzini ammontano, sempre considerando complessivamente i quattro interporti, ad un milione di mq.
Parma svolge in realtà più una funzione di centro logistico che di vero e proprio interporto (nonostante due binari ferroviari già realizzati): qui le aree a disposizione delle imprese per attività logistiche superano i due milioni di mq., con una movimentazione di 120mila veicoli commerciali all’anno e quasi 40mila casse mobili. Verona, Bologna e Padova effettuano invece anche una consistente funzione intermodale, con una specializzazione suddivisa sia in termini di unità di carico, sia per le direttrici geografiche servite. Bologna si è specializzata nei collegamenti con il Centro-sud Italia, Padova nei collegamenti con i porti del Tirreno e verso l’Est Europa, Verona per il Nord Europa. Bologna e, soprattutto, Padova sono specializzate nella movimentazione dei containers (la prima con 700mila unità trattate all’anno, la seconda con quasi un milione e mezzo, che ne fa uno dei principali inland terminal d’Europa), Verona nelle casse mobili (230mila all’anno) e nei semirimorchi (90mila).
Questa breve e incompleta rassegna sull’offerta infrastrutturale e di servizi logistici e per l’intermodalità nei quattro interporti vicini a Mantova ha lo scopo di far capire come al momento non esista, in realtà, un problema quantitativo di dotazione infrastrutturale. Un impresa manifatturiera localizzata sul territorio mantovano, e ancor più un operatore di logistica e trasporti che a questa impresa voglia fornire i propri servizi, ha quindi a disposizione a pochi chilometri un’offerta consistente di infrastrutture logistiche e intermodali di prim’ordine. E siccome un’impresa non ragiona in termini di confini amministrativi o di semplice distanza chilometrica ma di accessibilità a servizi misurabili in termini di costi e qualità complessivi, non è affatto detto che la presenza in territorio mantovano di un Interporto ne faciliti l’utilizzo da parte delle imprese locali. E’ questo un ragionamento che può sembrare banale ma che, in realtà, non sempre è stato considerato nella programmazione delle infrastrutture logistiche.
Tuttavia, questo ragionamento non deve portare alla conclusione che una infrastruttura logistica minore non possa avere un suo spazio di mercato.
E, d’altro canto, l’interporto di Mantova come altri centri intermodali minori, pur non essendo ancora riusciti a sviluppare una vera e propria funzione intermodale, hanno comunque visto crescere interessanti attività logistiche. Magari diventando zone per l’insediamento di imprese di autotrasporto e di spedizione che, grazie alla buona accessibilità alle reti autostradali e alla disponibilità di spazi operativi, hanno potuto investire in nuove funzioni logistiche specializzate a valore aggiunto.
Per quanto riguarda l’intermodalità è la specializzazione la chiave che può aprire interessanti prospettive di sviluppo. Come a Trento, dove si è potuto contare sulla vicinanza con il confine austriaco per inaugurare un efficiente servizio di combinato accompagnato (autostrada viaggiante) che a Verona risultava più difficile organizzare.
A Mantova può senz’altro giocare un ruolo importante l’intermodalità fluviale – sulla quale nessuno degli interporti vicini può direttamente contare – ma sapendo che le merceologie trasportabili per vie d’acqua interne non sono in realtà numerose.
E che, comunque, la semplice gestione intermodale non giustificherebbe investimenti consistenti da parte delle imprese se non accompagnata da attività logistiche a valore aggiunto.
In conclusione, sembra di poter affermare che l’Interporto di Mantova, così come è avvenuto per altri interporti di dimensione minore, potrà sviluppare interessanti spazi di mercato se si sarà in grado di assicurare almeno tre condizioni:

  1. una gestione imprenditoriale e non burocratica delle infrastrutture, che favorisca l’insediamento di operatori logistici specializzati, che a partire dall’offerta di servizi per il tessuto produttivo locale siano in grado, proprio in quanto specializzati, di attirare una domanda di raggio più vasto;
  2. una divisione del lavoro e una integrazione delle attività entro una rete estesa di infrastrutture e servizi per l’intermodalità, a partire dai principali interporti dell’area padana che, come abbiamo visto, hanno già oggi un consistente volume di traffici ai quali aggregare, con adeguati servizi di consolidamento, anche la domanda proveniente dall’area mantovana, e ai quali offrire l’integrazione con le vie d’acqua;
  3. lo sviluppo di progetti innovativi a servizio dell’area urbana (city logistics) e delle filiere produttive locali (district logistics), basati su strategie di diffusione delle tecnologie di rete e di crescita della cultura logistica nelle imprese.

In questa prospettiva, l’Interporto potrebbe veder crescere il proprio ruolo come strumento di una politica per l’innovazione logistica del territorio. Ma, per l’appunto, come uno degli strumenti, non certo l’unico a cui affidare un compito che ha bisogno di altri attori e di altri strumenti per essere effettivamente realizzata.

2°:Ipotesi progettuali per l’ottimizzazione della logistica nei distretti industriali della provincia di Mantova

Prima di avanzare alcune proposte in ambito di district logistics è necessario considerare alcune peculiarità che contraddistinguono l’organizzazione dei distretti industriali e il loro sistema di governance rispetto agli interventi di ottimizzazione della logistica di altri modelli produttivi. Vanno quindi effettuate alcune considerazioni preliminari di carattere complessivo sullo sviluppo del district chain management (DCM) e successivamente focalizzare l’attenzione su una serie di proposte che potrebbero vedere la luce specificatamente nei distretti mantovani.

2.1. Linee di evoluzione delle attività logistiche a servizio delle imprese

2.1.1. Network flessibili e reversibili tra imprese per produrre un bene

Il sistema produttivo dei distretti industriali è contraddistinto da una elevata divisione del lavoro che coinvolge principalmente PMI locali ad alta specializzazione. Questa forma reticolare di organizzazione industriale, che si è sviluppata attraverso processi in gran parte spontanei, si è rivelata nel tempo la soluzione vincente nella produzione di beni con mercato a domanda ad elevata varietà e variabilità, altrimenti definiti di “fascia quick”, cioè beni che assommano le seguenti caratteristiche di mercato e logistica:

  • Bassa prevedibilità della domanda
  • Un ciclo di vita che va da tre mesi ad un anno
  • Un margine di contribuzione che va dal venti al sessanta percento
  • Una elevata varietà del prodotto
  • Un errore medio di previsione al momento del lancio di produzione che va dal quaranta al cento percento
  • Una rottura media di scorte che va dal dieci al quaranta percento
  • Un markdown¹ forzato di fine stagione che va dal dieci al venticinque percento

Questa tipologia di prodotti abbisogna di una organizzazione logistico produttiva molto dinamica e flessibile, in grado di reagire tempestivamente o addirittura prevedere una domanda che si rivela altamente varia e variabile.
Sono perciò principalmente le economie di varietà, non quelle di scala, a permettere ai produttori dei distretti di essere protagonisti nella gestione dei mercati globali di questo tipo di beni.
Le capacità che le imprese distrettuali hanno sviluppato sono di creazione, gestione, organizzazione ed ottimizzazione di supply chain reattive, che se in una prima fase erano esclusivamente locali ed interne al distretto, ora invece hanno un’estensione globale, e quindi una maggiore complessità di gestione organizzativa che a volte riduce la flessibilità del network e quindi mette in discussione la principale fonte di vantaggio competitivo che essa solitamente originava.
Questi “network a legami deboli” tra imprese hanno dato un grande vantaggio alle PMI distrettuali, e ogni scenario futuro che guardi l’organizzazione distrettuale non può prescindere da questa caratteristica fondamentale di carattere logistico. Tuttavia, ciò che avviene tra le imprese del distretto è principalmente una divisione del lavoro di tipo cognitivo, nel senso che ogni impresa si assume l’onere di svolgere una determinata fase della filiera, ma nel contempo si preoccupa di sviluppare ed approfondire il know how, l’innovazione in nuovi prodotti (semilavorati, componenti o prodotti finiti), nonché i processi tecnici e organizzativi relativi alla propria specifica attività.
In realtà, anche se posizionato su prodotti cosiddetti tradizionali, il distretto può essere considerato come un laboratorio permanente di ricerca ed innovazione che sviluppa microsoluzioni originali, soprattutto in ambito di processo, che ne alimentano continuamente la competitività sui mercati di riferimento.
Ciò che va sottolineata quindi è la capacità degli imprenditori del distretto di creare giochi di squadra a scopo produttivo con quegli attori economici che in una determinata fase temporale emergono in ambito locale per leadership nelle caratteristiche tecnologiche, organizzative e soprattutto cognitive.
Ma come ottenere network produttivi reversibili, in modo da sostituire un partner o un fornitore nel momento in cui questo rivela la sua incapacità o inefficienza relativa, se i legami tra imprese sono forti e consolidati?
Qui emerge il punto debole delle attuali soluzioni di Supply Chain Management (SCM). Queste soluzioni, principalmente pensate per reti centrate su imprese leader, prevedono investimenti molto elevati a livello di catena sui seguenti fattori:

  • Software (SCM, Enterprise Resource Planning, extended ERP, etc…)
  • Risorse umane di interfaccia
  • Forti integrazioni operative
  • Condivisione di standard proprietari nella gestione logistica sia fisica che immateriale
  • Condivisione di banche dati di vario tipo

Ciò permette di sviluppare una efficienza di catena che è lo scopo principale di mercati e produzioni basate sulle economie di scala ma che poco hanno a che vedere con le produzioni distrettuali poiché rende i legami tra imprese molto saldi e quindi inadatti ad una gestione flessibile dei network produttivi.

2.1.2. La funzione chiave della conoscenza distrettuale (District Knowledge)

Insieme alla flessibilità e reversibilità delle relazioni produttive, la seconda caratteristica che fornisce all’impresa del distretto una fonte preziosa di vantaggio è costituita dalla qualità sociale e cognitiva dell’ambiente locale
La “atmosfera distrettuale”, per usare un termine classico della letteratura sui distretti, è permeata di una conoscenza diffusa che è composta da know how, best practices, relazioni tra i diversi attori, che consolidatesi nei decenni, se non addirittura nei secoli, permettono ad ogni soggetto coinvolto dalla produzione distrettuale di godere di un vantaggio competitivo non indifferente.
Tale conoscenza è risultata di difficile se non impossibile trasferibilità e replicabilità, inducendo spesso i maggiori produttori stranieri dei beni tipici anche della nostra produzione distrettuale a creare proprie sedi nelle nostre zone per godere di queste economie esterne di agglomerazione.
Un’ulteriore caratteristica positiva dell’ambiente distrettuale è che ogni innovazione, ogni ottimizzazione, pur se realizzata dai singoli soggetti imprenditoriali, diventa molto velocemente un’economia esterna, cioè patrimonio del distretto e quindi condivisa o condivisibile dagli altri attori distrettuali.
In conseguenza di questa situazione, oggi nei distretti industriali italiani nascono imprese non solo dagli spin off delle capofila distrettuali, ma anche dalla creazione di filiali, soprattutto nell’ambito della Ricerca & Sviluppo, da parte delle maggiori aziende estere del settore che approfittano sia del clima particolarmente favorevole all’innovazione dei distretti che del mercato locale del lavoro ad alta specializzazione.
Questa atmosfera favorevole alla ottimizzazione del patrimonio immateriale ha subito negli ultimi anni una sensibile flessione con la delocalizzazione produttiva che, espellendo dal distretto intere fasi della filiera, ha determinato delle “emorragie cognitive” che oggi cominciano a creare primi effetti negativi sul patrimonio di conoscenze esclusive di alcuni distretti.
In questo senso, molti sistemi di PMI che in modo inconsapevole hanno in passato potuto godere di un humus favorevole, oggi devono cominciare a ragionare in termini di strategie territoriali che cerchino di riprodurre o perlomeno di non danneggiare l’ambiente socio economico che tanto ha concorso a creare il loro vantaggio competitivo.

2.1.3. Forte concorrenza fra soggetti della stessa fase di filiera

Nell’ambiente distrettuale sono presenti molte imprese che agiscono ai vari livelli della filiera produttiva, e si è consolidata nel tempo una forte divisione del lavoro che ha incentivato la ricerca da parte delle imprese di specifici vantaggi competitivi.
Tale situazione è stata agevolata anche dal fatto che nel distretto l’informazione viaggia molto più velocemente rispetto ad altre forme di organizzazione industriale e quindi il mercato “business to business” si mantiene di elevata trasparenza.
Il fornitore di attività produttive migliore, il fornitore di servizi alla produzione più qualificato, il soggetto più innovativo, il provider di servizi logistici più efficiente, il subfornitore più conveniente, sono conosciuti da tutti all’interno del distretto, e quindi questa capacità dell’ambiente di saper informare in modo veloce sulla capacità competitiva dei singoli – capacità definibile come know-who – ha determinato degli effetti di positiva concorrenza, soprattutto fra i soggetti coinvolti nella stessa fase di filiera, sia essa produttiva o di servizi.
In alcuni casi la dinamica concorrenziale interna al distretto ha portato a forme di conflittualità latente o manifesta la quale, nonostante abbia sino ad oggi avuto un effetto positivo a livello di sistema, ha anche determinato negli imprenditori una forte avversione a tutto ciò che può avere la minima parvenza di collaborazione o di esplicita cooperazione con gli altri attori distrettuali che non siano direttamente coinvolti in forma complementare nel proprio network produttivo. E’ facile capire come ciò si riveli dannoso per quelle politiche, tipiche dell’attività logistica, che si basano principalmente sull’aggregazione di flussi operativi di imprese diverse, sia di beni che di informazioni, e sulle conseguenti economie di scala e di scopo ottenibili.
Non a caso, molte proposte che in passato sono state avanzate in questa direzione hanno avuto poco seguito. La diffusa consapevolezza del valore positivo della concorrenza domestica è ancora troppo forte per pensare che questa possa essere abbandonata per presunti vantaggi economici nella funzione logistica illustrati dai vari consulenti e ricercatori. Ogni volta che questa situazione emerge all’interno di un’analisi della logistica distrettuale si accusano gli imprenditori di scarsa propensione al gioco di squadra, di poca maturità manageriale o di incapacità ad affrontare temi che esulino dalla mera produzione di un bene.
In realtà, l’errore è quello di considerare il distretto come una supply chain tradizionale e quindi cercare di applicare ad esso teorie e strategie nate per dare risposte ai problemi organizzativi di imprese strutturate su reti di fornitura dipendente.
Proporre strategie di consolidamento dei flussi logistici per diminuirne i costi non tiene conto del fatto che ciò presuppone una condivisione di informazioni strategiche sui propri clienti e fornitori che viene ad intaccare il patrimonio cognitivo su cui poggia il vantaggio competitivo delle singole imprese.
Una proposta di questo tipo può caso mai essere effettuata per supply chains proprietarie, dove il raggiungimento di determinate economie dimensionali è alla base delle strategie delle componenti imprenditoriali, ma non nelle reti di distretto.
Quanto detto non deve tuttavia portare alla conclusione che interventi di ottimizzazione della SCM siano del tutto improponibili all’interno dei distretti.
Tuttavia, assieme ai principi di efficienza tecnica deve essere dato il giusto peso all’esigenza di mantenere alcune caratteristiche organizzative e di governance delle filiere logistico-produttive dei distretti. Nei distretti la ricerca di efficienza va dunque ricercata soprattutto con interventi su alcuni nodi strategici delle reti locali, o tra quei soggetti che all’interno delle diverse reti locali hanno sviluppato legami più forti, strutturati e duraturi. E’ in questi casi che si possono proporre con maggiore probabilità di successo progetti, attività e strategie comuni che prevedano gli investimenti tipici di supply chain efficienti.
Esistono inoltre alcune aree di ottimizzazione logistica che permettono di mantenere nelle supply chain distrettuali quei legami deboli tra imprese che non avrebbe senso mettere in discussione. Vediamo quali.

2.2. L’ambito distrettuale come nuovo ambiente di intervento per lo sviluppo di strategie di logistica d’impresa

Nei distretti industriali si sviluppa una divisione del lavoro di tipo produttivo ma indirettamente anche di tipo cognitivo. Ciò determina l’esigenza da parte dei partner di un medesimo network di instaurare tra loro legami deboli. E’ inoltre abbastanza frequente che all’interno dei distretti un’impresa partecipi simultaneamente a più supply chain. Queste caratteristiche di funzionamento economico dei sistemi distrettuali ha importanti risvolti dal punto di vista dell’organizzazione logistica.
Le imprese distrettuali incontrano infatti problemi notevoli quando decidono di effettuare investimenti in standard logistici, informatici e organizzativi, dal momento che questi strumenti di condivisone potrebbero avere durata minima (reversibilità della rete) o dovessero essere affiancati a quelli di altre reti logistico-produttive alle quali si partecipa. Com’è facile comprendere, gli investimenti di tipo economico e cognitivo (di apprendimento) necessari a dotarsi di tanti standard logistici e informativi quante le reti a cui si partecipa incontrerebbero serie difficoltà di ritorno.
Il SCM tradizionalmente inteso sta quindi stretto alle imprese distrettuali soprattutto a quelle definite da Sergio Bologna¹ del “comparto B” e cioè quelle PMI che non sono inserite in alcun sistema governato da gruppi leader o da buyers esterni e che si muovono liberamente sul mercato senza aderire ad alcuna filiera logistica preorganizzata, cioè senza una precisa cittadinanza logistica.
Quali strategie logistiche attuare in favore soprattutto di questa tipologia di imprese che, pur non avendo cittadinanza logistica, costituiscono generalmente il principale motore competitivo dei distretti?
L’ambito analitico del SCM risulta in questo senso troppo ristretto e perciò diventa necessario che le strategie di intervento nel campo della logistica di distretto assumano come oggetto non più la supply chain ma un modello che possiamo definire di District Chain Management (DCM), i cui presupposti sono quelli fin qui ricordati:

  1. Network flessibili e reversibili a legami deboli
  2. District knowledge
  3. Forte concorrenza tra imprese del distretto

Solo considerando le implicazioni e le conseguenze di ogni strategia logistica con i punti evidenziati in precedenza si possono organizzare ipotesi operative di analisi consulenziale e di sviluppo di strumenti e modelli organizzativi per le PMI distrettuali.

2.3. Il District Chain Management (DCM)

Un progetto di District Chain Management (district logistics) è principalmente un progetto di politica industriale e non di economia o ingegneria dei trasporti. La progettazione di infrastrutture logistiche (interporti, depositi, piattaforme logistiche, etc…) o di trasporto (collegamenti stradali, raccordi ferroviari, passanti, tunnel, etc…) è solamente una delle fasi, non necessariamente la principale, che devono contribuire alla realizzazione di una politica per la logistica distrettuale.
Dal punto di vista del sistema di governance l’impostazione di una politica per i distretti deve partire dall’assunto che non esistendo una “master mind” distrettuale, è necessario accompagnare l’ordine spontaneo dell’agire distrettuale verso percorsi evolutivi di apprendimento collettivo, attraverso i quali prospettare soluzioni magari parziali (e dunque subottimali) ma coerenti con le logiche di funzionamento di un sistema organizzativo complesso. Va inoltre aggiunta anche un’altra considerazione apparentemente banale: i distretti industriali non sono tutti uguali.
Osservare che ogni distretto rappresenta una realtà unica e distinta significa riconoscere l’esistenza di situazioni organizzative e imprenditoriali non equivalenti, all’interno delle quali si sono attivate filiere produttive non omologabile le une con le altre. In questa prospettiva risulta di primaria importanza per l’elaborazione di strategie di DCM una prima fase di analisi della catena del valore distrettuale per identificare i soggetti strategici, le attività governate in modo ottimale, i punti deboli, le attività di supporto indispensabili, etc…
Può allora risultare utile una classificazione dei distretti industriali in base alla diversa tipologia organizzativa che contraddistingue non solo il tipo di filiera tecnica presidiata ma soprattutto la distribuzione del potere di mercato delle componenti imprenditoriali interne. In prima approssimazione si possono così individuare tre tipologie distrettuali:

  • Distretti all’interno dei quali esistono solamente una o poche imprese di grandi dimensioni che emergono sulle altre per potere di mercato e leadership tecnologica e commerciale nei confronti delle altre (Distretti indotto)
  • Distretti dove operano alcune imprese di medie dimensioni con poteri di mercato e capacità industriali fra loro equivalenti (Distretti concorrenziali)
  • Distretti caratterizzati dalla presenza di una diffusa platea di piccole imprese e di aziende artigianali di dimensioni simili, dove non emerge nessuna realtà produttiva e commercialmente dominante (Distretti polverizzati)

Vediamo ora di analizzare distintamente queste tre tipologie di distretti, cercando in particolare di cogliere alcune indicazioni utili alla definizione di una strategia di innovazione logistica in una prospettiva di DCM.

DCM nei distretti di tipo A – Distretti indotto (una o due imprese rilevanti)

In questi distretti il potere di mercato di poche imprese leader è determinato dalla loro stretta relazione con i circuiti distributivi e commerciali internazionali del settore.
Ne consegue un potere molto forte nei confronti dei propri fornitori, solitamente PMI distrettuali, che determina una organizzazione piramidale della supply chain.
La struttura gerarchica della filiera permette un SCM di tipo tradizionale, con investimenti in infrastrutture e sistemi informatici tipici delle catene di natura fordista o neofordista. Si può rilevare da queste prime osservazioni quanto la struttura logistica di un distretto sia determinata dalla sua organizzazione commerciale e dai suoi canali di mercato.
Il caso “Divani & Divani” (Gruppo Natuzzi) nel Distretto del mobile imbottito nelle Murgie è emblematico. Natuzzi in quell’area decide i rapporti del distretto con i maggiori partner logistici, perché è Natuzzi a detenere in modo esclusivo i rapporti con i buyer internazionali. Quindi sarà il suo gruppo a sviluppare le strategie di DCM con l’operatore ferroviario (Trenitalia Cargo) e con le infrastrutture intermodali di riferimento dell’area (Interporto di Nola, Porto di Gioia Tauro, etc…). Le scelte di Natuzzi ricadono poi su tutte le altre imprese del distretto che comunque possono usufruire delle economie dimensionali che il gruppo Natuzzi riesce a sviluppare.
Si può ovviamente discutere a lungo se in casi come questi si possa parlare di district logistics e non di SCM tradizionale. In ogni caso non è comunque questo l’unico caso di organizzazione logistica di filiera che, pur partendo da una base territoriale, viene di fatto gestita da una impresa leader. In realtà, va anche considerato il fatto che nel ciclo di vita di maturazione distrettuale, questa è una fase che molti distretti hanno vissuto agli inizi. In molti casi i distretti industriali sono nati all’ombra dell’attività di una grande impresa, che successivamente è stata affiancata da altre sviluppatesi in loco o da altre grandi trasferitesi nell’area per sfruttare economie esterne di tipo localizzativo. Anche dal punto di vista logistico si può ipotizzare l’esistenza di un ciclo di apprendimento che può nel tempo portare a soluzioni più aperte, come sono quelle di un distretto tipo B.

DCM nei distretti di tipo B – Distretti concorrenziali (decine di imprese capofila con pari potere commerciale)

In queste aree le imprese commercialmente rilevanti (capofila) sono in forte concorrenza tra loro e nessuna riesce ad essere leader assoluta rispetto alle altre. Ogni impresa capofila sviluppa una propria supply chain, che ha rapporti continui con le imprese di fornitura del distretto nella fase a monte e con i diversi buyer internazionali in quella a valle. Questi buyer sono molto spesso gli stessi per ogni impresa capofila, ma la forte concorrenza commerciale non agevola integrazioni di tipo logistico.
In questi distretti risultano particolarmente evidenti le conseguenze derivanti dall’assioma 3 del DCM (forte concorrenza). In questi distretti assume inoltre particolare rilevanza l’attività dei cosiddetti trust interface distrettuali (interfacce della fiducia), la cui funzione è quella di organizzare il gioco di squadra fra imprese che condividono comuni progetti di business e di innovazione.
In altri termini, queste tipiche figure del district management permettono la convergenza guidata degli interessi imprenditoriali verso la creazione di beni di club che altrimenti sarebbero poco considerati a causa delle elevate esternalità a cui danno luogo: come la formazione, la cultura produttiva distrettuale, il marketing e la logistica distrettuale. Il sistema produttivo di Montebelluna è un tipico esempio di questa tipologia di distretti.
In quest’area – che detiene la leadership mondiale nella produzione della calzatura sportiva ¹ – si assiste ad una sostanziale mancanza di integrazione logistica dei flussi delle imprese maggiori. I canali commerciali sono di fatto gli stessi per tutte le imprese ma ogni leader preferisce affrontarli in modo individuale, pagando costi logistico-distributivi pesanti (depositi e trasporti in primo luogo), pur di non condividere informazioni strategiche con i propri concorrenti. Il problema più forte rimane quello della completa sudditanza commerciale e logistica nei confronti dei grandi gruppi commerciali mondiali, definita da Sergio Bologna “subalternità logistica dei distretti”: a fronte di un mancato consolidamento dei flussi logistici in area distrettuale, si determina l’imposizione al sistema logistico del distretto di specifici standard – dalla gestione informativa ai linguaggi dei codici a barre, dai propri lead time ² agli imballaggi – che vengono così definiti dall’esterno dai singoli buyer oppure dai principali fornitori di materie prime.
Molto si è discusso a Montebelluna di progetti per infrastrutture logistiche ³ . Alcune società di consulenza hanno anche sviluppato progetti per infrastrutture logistiche comuni, come un interporto di distretto, ma la realizzazione di tali interventi non è mai concretamente partita. Ciò non significa che nel frattempo alcune iniziative di razionalizzazione logistica non abbiano avuto seguito. Infatti, un’analisi più approfondita rivela due fenomeni che sono sintomatici del modo di agire di un distretto di tipo B nell’organizzazione della propria catena logistica.
Fino a questo punto abbiamo rilevato l’idiosincrasia degli imprenditori di questo tipo di distretti verso la condivisione dei flussi logistici, in quanto tale azione comporterebbe una perdita di asimmetrie informative ritenuta pericolosa per la propria competitività. In realtà, questa integrazione dei flussi è stata realizzata da alcuni “intermediari logistici” con partner extradistrettuali che avevano i medesimi canali distributivi e produzioni integrabili con quelle della propria impresa (es: integrazione della logistica distributiva per il mercato italiano di produttori di scarponi da sci del distretto, con produttori di attacchi austriaci e di sci tedeschi). Si deve però riflettere anche sul fatto che la razionalizzazione dei flussi è comunque un compito che spetta ad un intermediario, ad un soggetto neutro rispetto all’arena competitiva del distretto: il provider di servizi logistici distrettuale può appunto svolgere questa funzione.
Se proseguiamo la riflessione ci rendiamo conto che forse è proprio la mancanza all’interno dei distretti di questi intermediari logistici, di questi prestatori specializzati di servizi a determinare una presunta immaturità logistica delle imprese. In altre parole, si potrebbe affermare che non è compito delle imprese integrare i flussi, ma di coloro che svolgono attività terziarie nel settore logistico.
A questo punto non bisogna però sottovalutare la specificità dei servizi logistici distrettuali, in quanto si trovano anch’essi a venire offerti in un ambiente ostile alla condivisione esplicita. Tale ostilità nasce sia da carenze di tipo culturale (ma che, come abbiamo visto, ha anche un suo lato positivo) sia più direttamente di tipo economico. Una delle principali lacune rilevate nelle imprese del distretto (rimanendo sempre a Montebelluna) è l’assoluta mancanza di analisi dei costi relativi alle varie attività aziendali, tra cui la logistica.
In una recente analisi in cui è stata rilevato la situazione logistica del distretto industriale di Montebelluna4 , circa il 70% delle imprese intervistate non calcolava i costi di quest’attività aziendale (non aveva, in altri termini, una contabilità industriale che rilevasse i costi logistici).
E’ facile intuire come la mancanza di una contabilità industriale determini l’assoluta impossibilità di valutare i vantaggi di una terziarizzazione dell’attività logistica. Ciò che allora è carente in distretti di questo tipo non è tanto la dotazione infrastrutturale bensì due elementi ancora più a monte:

Una matura cultura logistica da parte delle imprese industriali sulle opportunità offerte dai servizi logistici integrati;
La presenza di operatori logistici specializzati, in grado di interpretare le peculiarità della domanda e mettere a disposizione servizi e infrastrutture congruenti.

Quando queste condizioni esistono (caso DeBo Logistica che vedremo in seguito), anche in distretti di tipo B, i risultati non tardano a manifestarsi.

DCM nei distretti di tipo C – Distretti polverizzati (presenza di una pluralità di piccole imprese di dimensione equivalente)

La caratteristica di questa terza tipologia di distretti è quella di una produzione ancora legata a beni di tipo tradizionale a forte contenuto di lavoro manifatturiero, e che trovano nella qualità artigianale una fonte difficilmente sostituibile di vantaggio competitivo sui mercati mondiali (esempi di questo tipo sono il distretto del marmo della Valpolicella, distretto del mobile antico della Bassa veronese, il distretto delle calzature femminili di lusso della Riviera del Brenta).
In questi distretti sono dunque localizzate imprese non industrialmente organizzate, di piccole dimensioni e con sistemi di divisione tecnica e sociale del lavoro diversi rispetto alle realtà viste in precedenza. Il mercato è qui molto frammentato e poco organizzato, ed in questo senso la polverizzazione imprenditoriale del distretto aiuta le imprese ad attività di monitoraggio e presidio commerciale che altre tipologie organizzative non riuscirebbero a svolgere in modo altrettanto efficiente.
Questa continua varietà e variabilità del mercato e la sua costante ricerca di prodotto dalle caratteristiche artigianali non permettono una facile crescita dimensionale delle componenti imprenditoriali di questa tipologia di distretti. Non esiste perciò una leadership commerciale ben definita di alcune imprese sulle altre.
Le imprese nel contempo si rendono conto che il proprio vantaggio competitivo sta nella frammentazione produttiva, ma sentono il bisogno di integrazione per sviluppare alcune attività di servizi qualificati che in altri ambiti distrettuali è svolta all’interno di supply chain modernamente e tecnologicamente organizzate da imprese leader di rilevanti dimensioni. In questi casi può svilupparsi una spontanea ricerca verso forme associative e di integrazione di servizi comuni, che può porta a iniziative pregevoli nelle attività sia commerciali e di marketing sia di logistica distrettuale.
Un esempio in questo senso è il distretto del marmo della Valpolicella in provincia di Verona. In questo distretto non esiste una leadership commerciale di un’impresa sulle altre (alcune realtà sono più strutturate ed organizzate di altre, ma sempre in limiti dimensionali accettabili) e questo spiega perché il gioco di squadra, anche se a volte inconsapevole, risulti molto forte.
Le imprese di questo distretto hanno creato una fiera distrettuale delle tecnologie legate alla estrazione e lavorazione del marmo di valore mondiale (oggi trasferitasi nel quartiere fieristico di Verona), una scuola professionale (nata su iniziativa di un nobile locale nell’800, ma oggi sostenuta dalla totalità delle imprese distrettuali), un terminal ferroviario per la gestione dell’intermodalità dei traffici logistici in entrata ed in uscita dal distretto e da pochi mesi una videomarmoteca ed un laboratorio di certificazione della qualità della propria produzione.
L’habitat del distretto polverizzato favorisce più che negli altri casi la formazione di strategie comuni fra imprese, proprio perché risulta a tutti più evidente l’impossibilità di procedere individualmente – a causa dei problemi di economia di scala – nella realizzazione di servizi e infrastrutture di cui ogni impresa ha di fatto bisogno.
Infatti, laddove questi bisogni comuni non vengono riconosciuti – basti pensare all’organizzazione o alla partecipazione a di fiere di settore, all’utilizzo di servizi di prova e certificazione, alla creazione di servizi e attrezzature logistiche – questa tipologia distrettuale rischia più delle altre di vedere erodere progressivamente le proprie quote di mercato, portando ad una fase di declino difficilmente reversibile, almeno per le imprese specializzate nella filiera originaria.
Emblematico a tale proposito è il caso del distretto della calzatura maschile di lusso di Vigevano, che ha saputo mantenere una propria base produttiva solo sostituendo l’originaria specializzazione con produzione di macchinari per il calzaturiero.

3°: Alcune ipotesi di DCM per i distretti della provincia di Mantova

3.1. I distretti industriali fra individuazione normativa e progettualità

Nella nostra analisi abbiamo preso in considerazione due distretti industriali della provincia di Mantova: quello della calzetteria di Castelgoffredo e quello del legno di Viadana, entrambi riconosciuti dalla classificazione ufficiale proposta con i recenti provvedimenti legislativi della Regione Lombardia, la quale ha invece escluso altri sistemi produttivi locali del mantovano che in precedenza avevano, al pari di Castelgoffredo e Viadana, ricevuto un riconoscimento di legge.
Non è questa la sede per esprimere un giudizio circostanziato sui più recenti provvedimenti emanati dalla Regione Lombardia in materia di politica per i distretti industriali. Può tuttavia essere utile riprendere brevemente alcune questioni inerenti il rapporto fra riconoscimento normativo e progetti di politica industriale per i distretti. E’ certamente noto agli attorti locali che l’inclusione di alcune aree dell’economia mantovana nella classificazione ufficiale della Regione Lombardia – e, tra queste, anche del distretto di Viadana – è stata piuttosto controversa.
Dopo il primo provvedimento regionale in materia di distretti che risale ancora al 1992 (la Regione Lombardia fu la prima in Italia ad emanare un provvedimento attuativo della L. 317/91), dove la definizione geografica dei distretti aveva seguito criteri di inclusione piuttosto ampi (con 21 sistemi locali), nel gennaio 2001 viene presentata una legge che definisce due livelli di individuazione normativa: un primo livello definisce già nel testo di legge quali sistemi produttivi locali vengono riconosciuti come distretti industriali e, perciò, idonei a beneficiare fin da subito di specifici strumenti di politica industriale; un secondo livello – quello dei “metadistretti” – consente invece di definire successivamente, sulla base di un progetto di politica industriale, l’inclusione di un sistema locale nella categoria di distretto. Il distretto di Viadana, escluso in prima istanza dai distretti consolidati è poi stato fatto rientrare con successivo provvedimento.
Altri sistemi locali mantovani sono invece rimasti esclusi anche dall’ultima classificazione. Tuttavia, va sottolineato che la possibilità di utilizzare gli strumenti di politica economica per i distretti industriali anche per sistemi produttivi non esplicitamente riconosciuti nell’articolato di legge può costituire, paradossalmente, un punto di forza piuttosto che di debolezza.
Per rientrare nella categoria di distretto diventa infatti necessario formulare una proposta di politica industriale basata su un accordo fra istituzioni e attori locali.
In questa prospettiva, l’individuazione di una strategia di politica industriale orientata ad elevare i potenziali competitivi delle reti produttive locali presenti nel territorio mantovano – dalle filiere agro-industriali ai cluster della meccanica – può stimolare la ricerca di accordi originali fra attori economici e istituzionali.
Il nostro contributo intende muoversi perciò anche nella direzione di suggerire delle possibili iniziative di politica industriale per l’innovazione logistica che consentano alle istituzioni locali della provincia di Mantova, a partire dalla Camera di Commercio, di proporre l’inclusione di alcuni sistemi produttivi specializzati fra i distretti beneficiari del sostegno regionale.

3.2. A quale tipologia appartengono i distretti mantovani?

Nel caso del distretto della calzetteria di Castelgoffredo e di quello del legno di Viadana siamo di fronte, senza dubbio, a distretti di tipo B (concorrenziale).
Infatti in questo territorio abbiamo più imprese, o meglio, gruppi manifatturieri di riferimento, che organizzano il proprio approccio al mercato, la propria produzione e la propria logistica complessiva in modo principalmente autonomo, senza operare integrazioni di tipo orizzontale nell’attività commerciale e senza che vi sia una netta dominanza di una impresa rispetto alle altre.
Se vi è un fattore da sottolineare in questi sistemi produttivi è proprio la forte mancanza di integrazione tra soggetti dei diversi gruppi, in ogni tipo di attività, non solamente quella logistica. All’interno del gruppo si condividono molte attività ed informazioni, tra i diversi gruppi distrettuali l’isolamento è pressoché totale.
Tutto ciò trae origine dall’importanza che gli imprenditori distrettuali da sempre danno alla segretezza delle informazioni relative alla propria produzione e che li spinge ad una forte chiusura verso tutte quelle attività che prevedono una minima condivisione del proprio patrimonio informativo.
Paradossalmente la ricerca della massima varietà e diversificazione, tipica dell’attività di sviluppo strategico delle imprese distrettuali (non solo dell’area mantovana) ha determinato la crescente esigenza di standard condivisi come elementi creatori di varietà: una terminologia unica per i prodotti e per i semilavorati tipici del distretto, una codifica produttiva unica e dei linguaggi condivisi che permettano una integrazione maggiore tra i partecipanti alle reti logistico-produttive divengono priorità assolute a fronte di una divisione del lavoro che si presenta sempre più globale ed informaticamente gestita.
A questo punto le ipotesi progettuali per una logistica distrettuale nell’area mantovana potrebbero essere sintetizzate in alcune linee guida da sviluppare nei due distretti più rilevanti.
Tali ipotesi vanno inquadrate principalmente come direttive di strategia competitiva per le maggiori imprese leader distrettuali (quelle che intrattengono rapporti diretti con gli intermediari di mercato), perché ad una prima analisi delle due realtà in oggetto ci troviamo di fronte a due distretti di tipologia B (concorrenziali) e quindi ambienti ad alta competizione e conflittualità, dove il ruolo delle istituzioni di trust interface locali (il Centro servizi Calza di Castelgoffredo ed il Centro Ricerche Imballaggi Legno CRIL di Viadana) assumono un’importanza fondamentale nello sviluppo di progetti che prevedono l’attività integrata di più imprese distrettuali.

3.3. Progetto di creazione di uno standard comunicativo

Quello della definizione di uno standard comunicativo è il vero problema che sta alla base di ogni progetto di elaborazione di piattaforme virtuali di gestione delle informazioni distrettuali, settoriali e di gruppo (E-district).
Oggi gli esempi di piattaforme virtuali soprattutto negli USA sono molteplici, abbiamo marketplace, portali verticali ed orizzontali, ed in ognuno di essi si sviluppano interazioni di “business to business” del valore di milioni di dollari.
La caratteristica comune di queste piattaforme è la adozione di standard comuni di comunicazione che sono imposti dal sistema proprietario che è l’artefice della piattaforma. Un esempio tra i più noti è quello dei portali per la gestione della subfornitura nel settore automotive che dipendono dai maggiori colossi mondiali del mercato e sembra che in questo ambito lo spazio ed il mercato stiano privilegiando organizzazioni reticolari più simili al modello fordista-gerarchico, che a quello postfordista-orizzontale.
Tutto ciò è dovuto al fatto che tale modello ha per sua natura sviluppato strumenti tipici delle catene a legami forti, di supply chain efficienti, che tanto sono lontane dal modello distrettuale di organizzazione della produzione sul quale ci siamo soffermati nei capitoli precedenti.
In questo senso, si potrebbe affermare che esiste un handicap di partenza nell’elaborazione di progetti di integrazione informativa nei distretti industriali. Un handicap che va riconosciuto e affrontato in modo consapevole se l’obiettivo è quello di creare le condizioni per lo sviluppo di servizi e piattaforme logistiche efficienti per le imprese distrettuali.
Una strategia di questo tipo prevede un lavoro di gruppo che veda coinvolti la pluralità dei “soggetti forti” del distretto – imprese maggiori, associazioni di rappresentanza, istituzioni locali – per sviluppare uno standard comunicativo creatore di legami deboli tra imprese e quindi di varietà produttiva.
E’ un progetto ambizioso che va comunque portato avanti perché da esso dipende una parte consistente della possibilità di tenuta futura della produzione dell’area.
Nel caso specifico di Mantova il Marketplace creato per iniziativa della Associazione Industriali Provinciale con la collaborazione tecnologica di Caliari Research fornisce sicuramente una piattaforma tecnologica di notevole qualità, una piattaforma che tuttavia rischia di rimanere utilizzata molto meno del potenziale espresso a causa di una non corretta strategia di DCM.
Il problema da affrontare nei confronti di un numero consistente di imprese, come quelle dei due distretti in questione, è di favorire un investimento in standard tecnologici ed informativi che senza limitare la propria flessibilità organizzativa aprano la possibilità di accedere in modo efficace ai potenziali della comunicazione digitale.
Non è quindi una questione di deficienze organizzative o cognitive a determinare il lento approccio delle imprese mantovane a soluzioni tecnologiche avanzate, ma l’incapacità oggettiva di trasferimento del loro modello organizzativo flessibile, modello che è attualmente vincente, ad un nuovo media relazionale come Internet.
Tutto ciò per la mancata consapevolezza che l’ambito di riferimento nei distretti industriali non è la supply-chain della singola impresa leader, ma un ambito più ampio che coinvolge tutte le PMI distrettuali (imprese capofila comprese).
E’ nel contesto distrettuale che vanno pensate, sviluppate ed intraprese strategie di investimento in elementi comunicativi condivisi. Un esempio molto pregnante, proprio perché sviluppato in un distretto industriale di tipo concorrenziale, può essere quello che le imprese leader di Montebelluna stanno sviluppando in ambito di creazione di un software distrettuale per la progettazione ed il rapid prototyping per lo scarpone da sci (di cui Montebelluna detiene una quota pari al 75% della produzione mondiale).
In questo caso il ruolo del Museo dello Scarpone di Montebelluna (il centro servizi distrettuale) è stato fondamentale per riunire intorno ad un tavolo progettuale le maggiori imprese leader del distretto e convincerle a discutere di un’attività di sviluppo di uno standard informativo comune che permettesse l’accesso ad una nuova tecnologia di comunicazione digitale. Ciò vale soprattutto per le PMI che si trovano ad operare nelle reti di subfornitura a servizio delle realtà organizzative più rilevanti del distretto.
Un altro progetto significativo in ambito di DCM può essere considerato quello che attualmente un altro distretto di tipo concorrenziale, quello della sedia di Manzano, sta sviluppando tramite l’azione complessa della società RE.TE.D.I.S.
Questa società si propone di sviluppare una piattaforma wireless di B2B che permetta alle imprese del distretto friulano di dialogare mantenendo inalterata la dotazione tecnologica delle stesse. Si tratta di un progetto molto ambizioso che si dovrebbe realizzare standardizzando i documenti che attualmente circolano tra le imprese tra cui si suddivide la produzione in ambito locale e che sino ad ora ha raccolto l’adesione di una buona parte della realtà imprenditoriale locale (circa 500 imprese su 1200).
Anche in questo caso il successo dell’operazione si sta concretizzando nella capacità di sviluppo di strategie efficaci di catalizzazione del consenso di soggetti sia pubblici che privati tramite l’azione di un trust interface locale (in questo caso la banca di Manzano) e non solamente tramite l’adozione di tecnologie avanzate o di sviluppo di architetture organizzative complesse.
Il problema dei distretti e delle PMI non è dunque l’incapacità di comprensione del fenomeno Internet nei suoi lati tecnologici o di investimento economico, ma quella di riuscire a proiettare questa nuova tecnologia nel modus operandi tradizionale.
Ogni iniziativa che non tenga conto dell’organizzazione flessibile delle PMI distrettuali rischia di non essere accettata e di portare, perciò, all’insuccesso.
Un secondo progetto (strettamente connesso al primo) potenzialmente realizzabile nei due distretti mantovani, naturalmente cercando di sviluppare iniziative in linea con ciò che si è scritto sino ad ora, potrebbe essere quello del magazzino virtuale.

3.4. Ipotesi di magazzino virtuale

Le ipotesi qui formulate prendono spunto dall’attività della Unitec GMBH di Augsburg, Germania (www.unitec.it), società italo-tedesca che utilizza tecnologie di comunicazione digitale per la condivisione di acquisti e degli approvvigionamenti a servizio principalmente di grandi imprese e gruppi produttivi tedeschi. Tuttavia, Unitec si sta sempre più orientando in direzione dei sistemi produttivi locali di Pmi e, in particolare, dei distretti industriali.
Attraverso lo sviluppo delle nuove tecnologie di comunicazione, ed in particolare di Internet, l’applicazione dell’outsourcing amplia ancor di più le sue potenzialità. Attraverso lo sviluppo di particolari software nasce il concetto di magazzino virtuale, frutto dell’attività di esternalizzazione delle scorte. In questo modo si riesce ad eliminare fisicamente sia le scorte che il magazzino, delegando ad un terzo che provvede, attraverso collegamenti logistici con i diversi impianti produttivi, agli approvvigionamenti su richiesta dell’azienda. Questo permette di liberare una ingente parte di capitale immobilizzato, da investire nelle attività di business.
Generalmente in tutte le aziende è presente un magazzino materie prime e un magazzino ricambi. In alcune aree industriali – ed in modo particolare nei distretti industriali – vengono prodotti beni appartenenti allo stesso gruppo merceologico.
In questi poli produttivi si potrebbero ottenere notevoli economie condividendo in modo organizzato le risorse disponibili sullo stesso territorio. In tali ambiti si utilizzano le stesse tecnologie, gli stessi impianti produttivi, gli stessi ricambi, le stesse materie prime, le stesse maestranze e potenzialmente la stessa logistica. Questo rende i magazzini molto simili tra loro. Si tratta di una condivisione spontanea di risorse, ma non coordinata e non organizzata.
Tale mancata organizzazione è dovuta principalmente alla concorrenza di mercato e alla mancanza, fino ad oggi, di mezzi idonei a renderla possibile. Questo comporta la sopportazione da parte di tutti degli stessi costi di struttura, ma in maniera individuale. Sommando tutti i costi di struttura delle singole aziende si ottiene un costo di area del polo industriale.
Il magazzino vincola enormi capitali sottratti agli investimenti produttivi. Un magazzino da 5 miliardi di merce costa 1,5 miliardi di capitale, senza considerare i costi di struttura e di gestione. In considerazione di tali costi, come già detto in precedenza, la tendenza degli ultimi anni è stata quella di una forte riduzione delle scorte, con ottimi risultati finanziari originati dalla liberazione di capitale vincolato ma con effetti collaterali piuttosto seri e spesso non ben quantificati:

  • condizionamento della produzione;
  • aumento costi amministrativi delle forniture;
  • aumento costi logistici e di trasporto.

In particolar modo sono aumentati in maniera esponenziali i contatti da gestire con i fornitori, ma le persone che se ne devono occupare non sono aumentate. La soluzione che alcuni grandi gruppi industriali stranieri hanno adottato si può chiarire con un esempio quotidiano. Immaginiamo un condominio con dieci appartamenti (condomini). Ognuno di essi conserva 1 set di 10 lampadine di riserva nel caso si renda necessaria una sostituzione.
Quindi lo stock totale presente nel condominio è pari a 100 lampadine (dovrebbe risultare chiara la metafora dei condomini e la realtà delle aziende appartenenti ad un distretto o polo industriale). Ogni condomino ha la stessa serie di lampadine (le lampadine rispondono ad un unico standard). Supponiamo un costo medio per set pari a 50, con un costo complessivo di stock di 500. Si dimostra come sia possibile ridurre il capitale investito nello stock da parte di ciascun condomino e aumentare allo stesso tempo la disponibilità di scorte di ciascuno.
“Si esclude a priori che uno stesso componente si rompa nello stesso momento in aree diverse dell’impianto”.
E’ lo stesso principio per il quale sulle automobili è installata una sola ruota di scorta anziché quattro. Applicando tale principio al caso concreto viene presentata la prima soluzione alla questione del condominio. A seguito di una riunione di condominio si decide che ogni condomino terrà parte delle lampadine (2 anziché 10) e, in caso di necessità, potrà chiedere aiuto ai condomini dello stesso piano (cioè quelli logisticamente più vicini e facilmente raggiungibili). Tale soluzione dipende dal fattore di presenza sincrona dei due condomini vicini (cioè presenti allo stesso tempo): in questo senso Internet rappresenta già uno strumento che permette di lavorare in maniera asincrona, con tutti i vantaggi che ciò comporta.
In seguito a tale constatazione viene ricercato qualcuno sempre presente all’interno del condominio, e cioè il custode, a cui consegnare una lista di tutti i condomini con i relativi set di lampadine. Egli, in caso di necessità, preleverà la lampadina necessaria dall’appartamento del condomino che la possiede, anche se in quel momento il condomino non è presente, riacquistandola il giorno successivo per reintegrare la scorta. Questo permette un’ulteriore risparmio di costi e un’ottimizzazione delle scorte.
Ma c’è una terza soluzione. Si osserva che ogni condomino detiene due lampadine, ma potrebbe essere importunato in qualsiasi momento. La proposta è quella di esternalizzare le scorte e affidarle al custode, che, in caso di necessità e dietro compenso, porterà la lampadina e la installerà. I risparmio del condominio è il seguente:

  • i dieci set di lampadine si sono ridotti a due set, che vuol dire un risparmio dell’80%;
  • la scorta a disposizione di ogni condomino è raddoppiata, passando da dieci a venti lampadine (la scorta potrebbe essere ridotta anche a dieci, a seguito del principio chiarito in precedenza).

Tradotta la metafora in termini industriali, si ha che aziende appartenenti allo stesso distretto industriale, interconnesse e servite logisticamente da uno stesso provider di servizi, possono realizzare le stesse efficienze, passando dalla gestione convenzionale ad alto costo e in continua emergenza, alla partecipazione e utilizzo di un magazzino virtuale comune che ha come collante gestionale i nuovi sistemi di comunicazione come Internet. Questo permette l’abbattimento dei costi di struttura di magazzino e la conseguente variabilizzazione totale dei costi in funzione dell’andamento congiunturale dell’azienda, mediante l’outsourcing totale del magazzino.
Tale soluzione è applicabile anche ai magazzini di materie prime laddove sia presente una condivisione delle risorse, come nei distretti industriali.
A questo proposito va citata una realizzazione di piattaforma logistica distrettuale che coinvolge i flussi di materie prime che sono diretti alla Fulgar di Castelgoffredo che opera l’operazione di torcitura per il 95% delle imprese di calzetteria del distretto: si tratta, in particolare, del magazzino che il Gruppo Arcese ha realizzato inizialmente per NYLSTAR e che poi ha messo a disposizione di altri produttori di fibre sintetiche presso il villaggio SNIA di Cesano Maderno (MI).
In questo caso la capacità di Arcese (uno dei principali gruppi italiani di trasporto multimodale) è stata quella di sapere sfruttare in modo ottimale le informazioni a sua disposizione e di realizzare una piattaforma logistica specializzata (monopurpose) per il distretto della fibra sintetica, dove stoccaggio delle merci, materials handling, lavorazioni accessorie, imballaggi, trasporti sono focalizzati sulle specifiche esigenze delle aziende del distretto.
Ultimamente la capacità di reazione di alcuni Logistics Service Providers (LSP) alle esigenze delle Pmi sta cambiando. Sino ad oggi il mercato italiano ha visto il graduale imporsi di gruppi stranieri che forti dei loro investimenti in infrastrutture e mezzi hanno costretto molti dei nostri trasportatori e fornitori di servizi a subire le politiche altrui. Tuttavia, oggi alcuni LSP italiani hanno capito che i distretti possono essere un mercato non così facilmente appropriabile da parte di chi propone servizi di tipo standard.
Il caso della De.Bo.Logistica di Montebelluna è a tale proposito emblematico. In origine si trattava di un piccolo trasportatore locale (De Bortoli) che aveva capito l’importanza del servizio logistico su misura, un po’ quello che ha fatto Arcese a Cesano Maderno, ed che ha costruito la sua capacità di relazione con le imprese distrettuali nel contatto diretto e nel servizio personalizzato. Oggi anche le imprese più rilevanti di questo distretto scelgono De.Bo.Logistica per qualsiasi problema di tipo logistico, sicuri di affidarsi ad un partner locale in grado di fornire servizi efficienti e di qualità, senza dubbio confrontabili con quanto offerto dai competitors internazionali.
Nel contempo non si può non rilevare come gruppi del livello di Arcese stiano crescendo anche a livello europeo (fatturato consolidato del gruppo 1.210 miliardi di lire), adottando una politica che vede nel servizio ai cluster di imprese una delle loro specificità. Tali capacità non sono altrettanto facili da sviluppare per multinazionali del settore logistico abituate a mercati e sistemi produttivi di diversa morfologia.
Ma proviamo a tornare all’ipotesi di magazzino virtuale di distretto. Si immaginino dei magazzini gestiti in maniera automatizzata, cioè con procedure informatiche per la rilevazione delle giacenze. Il provider esterno, in maniera discreta e professionale, esamina le liste delle giacenze di tali magazzini in maniera da individuare le risorse in comune, che vengono immesse in un sito specifico, che rappresenta il magazzino virtuale, accessibile via Internet da tutti i partecipanti.
Un po’ come il commercialista di fiducia che conosce i segreti fiscali di diverse imprese ma non li rivela in pubblico, anche il provider logistico sa dove si trovano i componenti presenti nel database on-line senza rendere pubblica l’informazione sull’utilizzo delle scorte. Quando verrà richiesta la fornitura di uno dei componenti, sarà il provider a prelevarlo dal magazzino del partecipante in cui si trova il componente e consegnarlo al cliente, preoccupandosi inoltre di reintegrare la scorta. Si tratta quindi di “virtualizzare” il magazzino fondendo assieme tutti i magazzini presenti nel distretto, e affidarne la gestione ad un provider esterno, in maniera discreta e professionale. Questo permette di pagare abbondantemente il servizio del provider e di ridurre il capitale vincolato fino all’80%.
A partire da queste considerazioni quale potrebbe essere però la proposta precisa per i distretti mantovani?

3.5. Una proposta per Viadana: il pallet da prodotto a servizio logistico

Prendendo in considerazione un articolo della rivista “Pallet Packing” del CRIL di Viadana del luglio-settembre 2000 che cita l’ultima frontiera del commercio elettronico, cioè le aste online di pallets, si potrebbe pensare ad una partecipazione delle imprese distrettuali (opportunamente certificate dal CRIL) a tali aste, in modo da ottenere economie dimensionali impensabili da parte delle singole imprese leader del distretto.
Il provider gestore delle informazioni sulle giacenze dei magazzini presenti nelle imprese potrebbe sviluppare un magazzino virtuale distrettuale relativo alla presenza nei vari magazzini locali dei prodotti finiti, oppure della produzione potenziale disponibile, ed accedere in modo integrato orizzontalmente alle contrattazioni. Un magazzino virtuale di distretto permetterebbe un minor spreco di risorse finanziarie da parte delle imprese capofila e minori costi di gestione del magazzino fisico in termini di strutture, impianti, manodopera ed assicurazioni.
E’ sicuramente un’idea che permetterebbe una prima attività di logistica condivisa, che essendo unicamente frutto di ottimizzazione della gestione immateriale dei flussi non comporta grossi investimenti e che potrebbe rivelarsi una prima fase per un successivo ampliamento dei servizi offerti, fra cui quelli di e-procurement che vedremo più avanti.
Un ulteriore riflessione che questo articolo di Pallet Packing ci suggerisce è quello che viene spontaneo nella parafrasi che l’autore fa del titolo di un recente libro di Jeremy Rifkin, uno dei guru della new economy: “Con le aste online è iniziata l’Era dell’accesso!”
L’autore dell’articolo si arrocca su posizione di difesa rispetto alle tendenze che le aste online sembrano portare avanti e che si sviluppano su una considerazione ben precisa, quella che il pallet è una commodity, senza alcuna specificità qualitativa e che quindi può essere trattato tramite transazioni online come avviene ormai oggi per molte altre materie prime.
Nell’apprezzare l’attività del CRIL di sostegno alla qualità del prodotto mantovano, tramite anche la commercializzazione di un software (Palette) che permette l’analisi qualitativa dei pallets da parte delle imprese, non si può non considerare che la tendenza sopra segnalata è sicuramente sostenuta da fattori che alla lunga risulteranno vincenti, magari imponendo anche a molti altri produttori extra distrettuali gli standard che invece le imprese mantovane già raggiungono da anni.
Rimane quindi il problema di approcciare la cosiddetta “Era dell’accesso” con modalità nuove di sviluppo della propria attività imprenditoriale.
Quando Rifkin parla di accesso enfatizza non l’accesso delle imprese ad un nuovo canale comunicativo, che è appunto Internet, ma il cambiamento radicale che molte delle imprese di successo della attuale economia stanno riscuotendo nel vendere l’accesso ai propri beni (trasformandoli perciò in servizi) e non la proprietà ai beni medesimi. E’ un mutamento radicale che vede le imprese sempre più come fornitrici e acquirenti di servizi piuttosto che come produttrici e committenti di beni.
Nel caso specifico della produzione di pallet, le imprese del comprensorio mantovano conosceranno il caso dell’impresa australiana CHEP che applicando il cosiddetto pallet pooling ha ottenuto a livello mondiale la leadership nella gestione di questo rivoluzionario modello organizzativo delle unità di carico.
In pratica CHEP propone l’acquisto dell’accesso ai pallets, curandone la qualità, la manutenzione, la gestione contabile in outsourcing, evitando alle imprese che usufruiscono del servizio tutte le noie legate alla proprietà degli stessi.
Attualmente non sembra che l’attività di pallet pooling stia prendendo piede in Italia, ma forse per fenomeni legati alle caratteristiche peculiari delle nostre imprese che i produttori mantovani conoscono certamente meglio dei loro competitor stranieri.
Il distretto di Viadana, puntando anche sulla qualità del proprio manufatto, potrebbe pensare ad un progetto di pallet pooling da proporre ai vari distretti e clusters produttivi italiani, e creare soluzioni imprenditoriali che vedano nello sviluppo di un servizio (utilizzo e prelievi dei pallets), piuttosto che nella vendita del bene l’elemento creatore di vantaggio competitivo. La nuova impresa, cui potrebbero partecipare le imprese leader del distretto, potrebbe fungere da intermediario anche con le iniziative commerciali online che oggi vengono viste come una possibile minaccia da avversare.

3.6. Castelgoffredo: una logistica distributiva per gestire la varietà

“Moda: La crisi dei consumi di collant (-10%) spinge il distretto a diversificare nell’intimo. Castelgoffredo cambia rotta. Per Pompea i nuovi prodotti valgono già il 40% del fatturato” “Giovedì sarà presentato il rapporto annuale sull’industria della calzetteria, ma già gli operatori lanciano l’allarme crisi. Il distretto di Castelgoffredo (Mantova), che mette insieme quasi 300 aziende per un fatturato che supera i 2mila miliardi, deve fare i conti con una costante contrazione dei consumi di collant in Italia e in Europa, in discesa di circa il 10% l’anno.”
La citazione di un recente articolo apparso su Il Sole XXIV Ore ci permette di introdurre una riflessione sul distretto della calzetteria di Castelgoffredo che riflette in molte sue caratteristiche situazioni simili avvenute nel passato anche in altri distretti italiani.
A fronte di una realtà produttiva in difficoltà si prospettano invece tempi favorevoli per Calzedonia, l’azienda veronese – localizzata a poche decine di chilometri dal polo di Castelgoffredo – che grazie alle proprie scelte in ambito distributivo sembra non subire le stesse difficoltà delle sue concorrenti mantovane.
Calzedonia nasce nel 1987 per creare un nuovo business nella vendita di calze e collant da donna, costumi da bagno, calze da uomo e bambino attraverso una rete di negozi in franchising. Un’idea vincente: dopo poco più di 13 anni di attività, Calzedonia è oggi infatti un brand di successo conosciuto ed apprezzato, la cui crescita, inarrestabile, ha varcato anche i confini nazionali: a fine 2000 Calzedonia è arrivata a quota 680 negozi, distribuiti in Italia, Spagna, Portogallo, Federazione Jugoslava, Grecia, Polonia, Ungheria, Austria, Turchia, Cipro, Messico e Medio Oriente.
Il fatturato, che ha registrato una crescita continua, rispecchia questo trend positivo: si è passati infatti da 311 milioni nel 1988 a più di 150 miliardi nel 1998, per arrivare a fine 2000 a più di 300 miliardi, includendo anche il marchio Intimissimi.
Nel 1996, infatti, l’azienda ha creato un nuovo brand, Intimissimi, specializzato in biancheria intima, che ha saputo ripetere il successo di Calzedonia, sfruttando la stessa strategia di mercato.
Il successo di Calzedonia è da ascrivere ad una pluralità di fattori.
I prodotti offerti, che si distinguono per il vasto assortimento della gamma, l’estrema attenzione data al fattore moda e l’inimitabile rapporto qualità/prezzo, caratteristiche che hanno garantito all’azienda di soddisfare anche le richieste dei suoi clienti più esigenti.
Per la fine del 2001 sono previste nuove aperture, sia in Italia, per arrivare a coprire tutto il territorio nazionale in modo capillare, sia all’estero: più di 80 nuovi punti vendita a disposizione dei clienti abituali Calzedonia e di potenziali consumatori, con un’attenzione particolare rivolta alla clientela maschile, cui è dedicata una specifica linea di calzini.
La comunicazione nel settore moda-abbigliamento è da sempre un grande punto di forza. Per questo negli ultimi anni Calzedonia ha incrementato questo settore in continua evoluzione con mezzi e investimenti adeguati. Calzedonia ha così adattato un modo di fare comunicazione innovativo e inusuale. L’azienda infatti non si appoggia a un’agenzia di pubblicità, ma tutto viene concepito ed elaborato internamente, sia per l’Italia che per l’estero.
Dall’inizio del ’99 Calzedonia ha dunque istituito in sede un’apposita divisione per la comunicazione. Tale struttura può, proprio perché interna, avvalersi di molti vantaggi, in quanto conosce a fondo il target del prodotto e del mercato; può inoltre garantire una maggior riservatezza e raggiungere migliori risultati dal punto di vista qualitativo e quantitativo ricercando costantemente gli elementi che appartengono allo spirito Calzedonia.
Calzedonia, dal 1987, è riuscita ad imporre sul mercato la propria filosofia di vendita: una rete in franchising solida e ramificata, basata su negozi con una immagine fresca ed allettante, in grado di accontentare una ampia tipologia di consumatori.
La crisi attuale di Castelgoffredo somiglia moltissimo alle crisi che sono state vissute qualche anno fa da altri distretti veneti (sportsystem di Montebelluna e occhialeria del bellunese), crisi che sembrano attualmente superate grazie a politiche di diversificazione produttiva e di ricerca di nuovi riferimenti commerciali e di vendita a livello internazionale.
Analizzando un po’ più a fondo il caso Calzedonia emerge come il suo successo sia basato oltre che su una capacità di monitoraggio continuo del mercato e su una rete distributiva diretta, anche sulla competitività del prodotto di Castelgoffredo, dalle cui imprese Calzedonia fa produrre una parte consistente della calzetteria femminile.
Se vogliamo, è la stessa base del successo di Benetton, ed è una delle formule che altri produttori distrettuali hanno scelto per uscire dall’egemonia commerciale dei vari buyer internazionali di riferimento che in passato hanno fatto decollare le produzioni distrettuali italiane, ma che ora possono rappresentare un grave pericolo, poiché le loro scelte sembrano preferire produzioni di minore qualità ma anche con un minore prezzo.
Basta fare un giro nei centri storici o nei grandi centri commerciali delle città italiane per accorgersi quante imprese distrettuali hanno scelto di “scendere a valle” della filiera e dialogare direttamente con i consumatori dei mercati più ricchi e qualificati. Un elenco molto parziale di negozi monomarca creati da imprese distrettuali può essere il seguente: GEOX (calzatura e abbigliamento di Montebelluna), Tod’s (calzaturiero marchigiano), Playlife (gruppo Benetton, ma principalmente vetrina di una serie di produttori sportivi montebellunesi), Varuk (calzaturiero veronese), Divani e Divani (distretto murgiano del mobile imbottito), Valleverde (azienda riminese legata alla produzione del calzaturiero marchigiano), le acquisizioni di catene distributive dell’occhialeria da parte di Luxottica, De Rigo e Safilo (occhialeria bellunese), ed altri ancora.
Camera di Commercio di Mantova – Rapporto sulla Logistica Tutto ciò significa organizzare una rete di vendita che continuamente origina dati ed informazioni relative a diversi fattori strategici:

  • Quantitativi da produrre
  • Linee produttive vincenti
  • Nuovi prodotti da lanciare
  • Nuove strategie commerciali
  • Nuovi segmenti del mercato da esplorare

Tutto ciò consente di mantenere una buona capacità di reazione al mercato di riferimento che è una delle caratteristiche principali delle supply-chain distrettuali.
Come abbiamo detto in precedenza è la capacità di essere innovativi e creativi, e quindi flessibili e reattivi dal punto di vista logistico, che permette alle produzioni distrettuali di essere competitive. Se non si hanno relazioni dirette con il mercato questa capacità non trova le informazioni necessarie in tempo utile e quindi deve per forza uniformarsi a comportamenti strategici “copiati” da altri.
Oggi con la calzetteria si sta assistendo ad un comportamento di questo tipo, si parla di diversificazione e di investimenti nell’ambito dell’intimo, quando ormai altri (Calzedonia) hanno investito già da cinque anni (nel 1996) nella linea Intimissimi e nella produzione di abbigliamento mare.
Tra cinque anni si potrebbe assistere ad una crisi anche di queste produzioni e si cercheranno altri redditizi segmenti di mercato che magari saranno già stati esplorati e presidiati da competitors del settore.
La risposta quindi è diversificazione, ma anche e soprattutto investimenti in formule commerciali e distributive che permettano di volta in volta di tastare in tempo il polso dei clienti più sofisticati e di acquisire quelle informazioni che aiutano ad essere continuamente propositivi ed innovativi. Sino ad oggi le imprese di Castelgoffredo non sembra abbiano ancora realizzato investimenti diretti in ambito distributivo, che sono senza dubbio complessi da organizzare e gestire, ma tuttavia indispensabili per presidiare mercati ad elevata varietà e variabilità quali quelli del sistema moda.
Una modalità innovativa di approccio diretto al mercato che permette i vantaggi di una propria rete controllata, evitando gli ingenti investimenti che essa necessariamente richiede, è la formula del rack jobbing, cioè la possibilità di affittare spazi nella grande distribuzione che vengono gestiti in modo autonomo e diretto dagli stessi produttori.
Casi emblematici di successo sono quelli di Mac2 nel settore dell’editoria, quello della azienda produttrice di tende Arquati, con la società controllata Arkit e, per restare in tema di produzioni distrettuali, quello di Calligaris di Manzano, naturalmente nella gestione di corner nella Grande Distribuzione Organizzata che espongono le famose sedie di questa impresa leader del distretto friulano.
Il rack jobbing permette sia alla grande distribuzione di aumentare le proprie vendite (nel caso dell’editoria l’adozione di questo sistema ha portato il mercato italiano del libro da 3.000 a 4.200 miliardi di fatturato) sia alle imprese meno strutturate di aumentare significativamente la propria presenza nella attività distributiva e di creare quel ponte con il proprio mercato che spesso è totalmente in mano all’attività dei buyer.
Molte imprese di Castelgoffredo si trovano perciò di fronte all’esigenza di ridefinire la propria strategia di business cercando un rapporto più diretto con i mercati finali, e questo comporta – soprattutto per le imprese di dimensione minore – una capacità di dialogo e integrazione con altre imprese del distretto al fine di costruire quel potere di mercato che l’azione individuale rende più difficile ottenere.
Un fattore importante di integrazione può essere rappresentato proprio dalla logistica distributiva, che costituisce un canale di comunicazione fondamentale con la varietà e la variabilità della domanda finale e, allo stesso tempo, un fattore di costo crescente per le imprese più qualificate del sistema moda.

3.7. Ipotesi di piattaforma di e-procurement

Nel caso di una piattaforma di e-procurement stiamo sempre considerando una ottimizzazione dei flussi logistico-informativi.
Nella classificazione tipica dei beni da gestire a scorta per la propria produzione o per il proprio ciclo passivo si utilizza la cosiddetta analisi ABC dei prodotti tenuti a magazzino:

  • i prodotti di fascia A sono ritenuti strategici e di solito riguardano l’80% dei costi sostenuti dalla propria funzione di approvvigionamento e percentuali molto basse della tipologia dei prodotti presenti a magazzino (dall’1 al 10%)
  • i prodotti di fascia B sono solitamente pari ad un volume del 15% del costo totale e del 30% degli articoli
  • i prodotti di fascia C sono il restante 5% dei costi, ma circa il 60% del numero degli articoli

Naturalmente le percentuali variano da impresa ad impresa, ma una classificazione ABC può essere fatta in qualsiasi ambito logistico sia in uscita che in entrata della propria realtà produttiva.
In un ambito molto concorrenziale come un distretto di tipo B non si può facilmente ipotizzare una attività di integrazione dei flussi e delle informazioni relative all’approvvigionamento di prodotti di fascia A.
La concorrenza esistente tra i gruppi produttivi porterebbe a risultati disastrosi. Ciò che si può invece cercare di sviluppare è una attività integrata di gestione della logistica dei fornitori (procurement dei fornitori) relativamente ai prodotti di fascia B e C, che tra l’altro risulta molto costosa rispetto alle dimensioni dei flussi esercitati dalle singole realtà imprenditoriali.
Per fare dei casi concreti si potrebbe cercare una integrazione nel procurement relativo alla cancelleria, ad alcuni prodotti necessari alla manutenzione degli impianti produttivi, al vestiario degli operai, alla carta da fotocopie ed altro. Le possibilità sono in questo senso diverse e per essere individuate concretamente all’interno di un distretto sarebbero necessarie indagini accurate.
Un provider locale potrebbe integrare gli ordini relativi a determinate tipologie di prodotti di fascia B e C, effettuare un monitoraggio continuo delle condizioni migliori presenti sul mercato, acquistare a prezzi più bassi determinati dalla maggiore dimensioni dei flussi gestiti, svolgere una funzione di consegna regolare presso le imprese del distretto unicamente utilizzando una piattaforma virtuale di raccolta ordini da parte delle imprese (sia capofila che fornitori) presenti sul territorio.
Anche in questo caso l’investimento sarebbe minimo e porterebbe sicuramente a delle ottimizzazioni integrabili nel tempo con nuove soluzioni concepite successivamente. I dati condivisi non sarebbero quelli strategici per le imprese del distretto e quindi non si vedono, perlomeno a priori, condizioni ambientali avverse rispetto ad una soluzione logistica di questo tipo. A questo proposito si stanno evidenziando alcune iniziative, anche a livello locale, che permettono forti risparmi nella gestione del procurement dei materiali non strategici e che potrebbero essere gestite in modo integrato dalle imprese appartenenti ai due distretti mantovani.
Un aspetto importante da considerare è che anche iniziative limitate di razionalizzazione degli acquisti e di alcune linee di approvvigionamento per le imprese distrettuali possono dare avvio ad un processo di apprendimento logistico che, in prospettiva, può condurre a risultati ben più ambiziosi ed economicamente consistenti.
Ma è necessario avere consapevolezza che all’interno dei distretti i risultati migliori in termini di servizi comuni non sono quelli disegnati dall’alto di qualche expertise tecnica bensì quelli costruiti dal basso con il gioco di squadra fra imprese. Ed è questo gioco che anche un progetto di innovazione logistica deve saper avviare.

3.8. Conclusioni: logistica di distretto e distretti logistici alla ricerca dell’eccellenza

Come si può intuire facilmente le soluzioni progettuali prospettate sono fortemente collegate l’una all’altra: la creazione di standard comunicativi permetterebbe integrazioni informative migliori tra imprese distrettuali, ponendo le basi per una gestione ottimale delle attività previste dai progetti successivi (magazzino virtuale, servizio di pallet pooling, logistica distributiva, piattaforma di e-procurement).
Sui modi, i costi, i tempi e sul chi debba realizzare queste iniziative si potrebbe suggerire una analisi tra componenti imprenditoriali del distretto per selezionare alcuni tra i soggetti fornitori di servizi logistici complessi che già oggi offrono servizi simili a quelli presentati nelle pagine precedenti.
Sono soggetti che solitamente dialogano con realtà produttive di grandi dimensioni, ma che oggi a fronte di iniziative di integrazione settoriale, di cluster o di distretto, rese possibili grazie alle nuove tecnologie di rete, vedono aprirsi nuovi spazi di mercato prima irraggiungibili. Si può anche pensare che i costi non eccessivi di realizzazione di servizi non complessi possa permettere lo sviluppo anche locale di provider in grado di fornire e gestire i servizi logistici presentati.
Sono situazioni che anche altri distretti stanno affrontando¹ o hanno già affrontato, e che possono essere valutate per sviluppare strategie di district logistics di successo anche nell’area mantovana.
Alle considerazioni fatte sulle tematiche relative alla district logistics si possono aggiungerne altre che nascono da una recente iniziativa della Associazione Industriali della Provincia di Mantova volta al riconoscimento di un metadistretto o distretto tematico in area mantovana da parte della Regione Lombardia.
Si tratta di questioni che vanno tenute distinte, anche se sono evidenti le possibili e vantaggiose relazioni. Mentre la logistica di distretto consiste nella messa in opera di un insieme di attività di razionalizzazione della catena di approvvigionamento, stoccaggio e distribuzione per una specifica filiera industriale, un distretto logistico consiste in una concentrazione di imprese e infrastrutture (magazzini cross docking, impianti per il caricamento e l’handling delle merci, piattaforme di lavorazione e finissaggio dei prodotti, collegamenti intermodali, ecc.) per la fornitura di servizi logistici orientati a diversi settori. Proprio la presenza di elevate economie di scala nelle attività logistiche richiede che nel distretto logistico si concentrino flussi di origine diversa, così da organizzare in modo efficiente tracce orarie e direzionali con elevata frequenza.
Da questo punto di vista va sottolineato come un distretto logistico mantovano non possa che essere realizzato in stretto collegamento con l’interporto veronese del Quadrante Europa, con il quale condividere attività sistemiche di gestione dell’intermodalità e della logistica. Da quanto abbiamo potuto rilevare, il Consorzio ZAI, gestore dell’interporto di Verona, ha accolto con positivo interesse l’iniziativa promossa a Mantova, in quanto essa risponde all’obiettivo generale di creare un polo di eccellenza logistica per il Nord Italia. In questo senso si muove anche l’iniziativa di costituire un “Centro di competenze logistiche” insieme al Parco Scientifico STAR di Verona ed a un gruppo di consulenti collegati alla comunità professionale LogIn.
Si tratta di una iniziativa importante proprio perché supera l’idea tradizionale che l’offerta di servizi logistici dipenda esclusivamente dalla dotazione infrastrutturale e non anche dalla presenza di competenze logistiche di eccellenza, in grado di dialogare con le imprese e ricercare soluzioni tecniche e organizzative adeguate alle loro specifiche esigenze.
Il centro di competenze previsto dal progetto STAR si dovrebbe concentrare su quattro attività:

Analisi, ricerca e consulenza logistica

  • Analisi dell’organizzazione logistica delle filiere produttive rilevanti per l’economia locale, che permetterebbe di fornire le informazioni necessarie alla realizzazione di politiche industriali e di attività terziarie congruenti con le specializzazioni distrettuali.
  • Analisi strategica per infrastrutture logistiche (interporti, terminal ferroviari, magazzini generali, piattaforme logistiche, etc…) al fine di fornire alle imprese manifatturiere informazioni sulla disponibilità delle infrastrutture logistiche del territorio e il possibile utilizzo di queste piattaforme per le proprie strategie evolutive.
  • Consulenza per le Pmi sui temi collegati alla logistica nel commercio elettronico, al fine di aiutare le imprese a sviluppare correttamente le attività logistiche funzionali alle esigenze della vendita su web ed alla gestione dei nuovi canali distributivi.

Osservatorio territoriale permanente

  • Monitoraggio dell’innovazione tecnologica nel campo logistico.
  • Monitoraggio permanente della situazione logistico-organizzativa delle imprese del territorio.
  • Monitoraggio della presenza di Logistics Service Provider sul territorio di riferimento e dei servizi offerti.

Banca dati ed archivio

  • Banca dati delle analisi e ricerche effettuate sul territorio in tema di logistica.
  • Banca dati dei monitoraggi periodicamente effettuati dal gruppo stesso.
  • Biblioteca ed emeroteca delle pubblicazioni in materia di logistica.

Knowledge management territoriale e pubblicazioni

In virtù delle competenze citate precedentemente e della costituenda banca dati, il gruppo potrebbe porsi a riferimento per tutte le attività di knowledge management in ambito logistico relative all’area Verona – Mantova. È il primo caso di sistema di imprese terziarie ad ambire ad un simile riconoscimento, la diffusione di tali conoscenze avverrebbe tramite molteplici strumenti quali:

  • Pubblicazione periodica
  • Newsletter online
  • Pubblicazione delle ricerche svolte
  • Organizzazione seminari
  • Organizzazione eventi e convegni

Quella della creazione di un centro di competenze logistiche sarebbe un passo fondamentale verso la creazione di un distretto logistico nell’asse Verona-Mantova, che potrebbe vedere coinvolte istituzioni, associazioni e imprese dei due sistemi territoriali.
Ciò costituirebbe la premessa ad una più estesa collaborazione nel campo della gestione integrata delle infrastrutture e nella fornitura di servizi logistici di eccellenza per i sistemi produttivi dell’area padana.

4°:Ottimizzazione della logistica urbana

4.1. Cos’è la City Logistics?

Siamo abituati a rappresentare il trasporto delle merci come una lunga fila di Tir allineati in autostrada o nelle grandi arterie di traffico extraurbano. In realtà, il 50% del traffico merci si svolge all’interno delle città, dove del resto si concentra la domanda da servire attraverso la fitta rete distributiva del commercio e delle attività terziarie, che a loro volta movimentano volumi rilevanti di pacchi, plichi e documenti.
Se a questa situazione si aggiunge il previsto aumento causato dalla distribuzione a domicilio di merci parcellizzate indotta dallo sviluppo del commercio elettronico, ci troviamo di fronte ad un problema che è destinato ad aggravarsi ulteriormente.
Intervenire nella razionalizzazione della distribuzione di “cose” in ambito urbano potrebbe dunque portare un notevole contributo alla riduzione dell’inquinamento e della stessa congestione del traffico, ma anche a ricreare condizioni di vantaggio localizzativo nei Centri storici per la rete del dettaglio commerciale, oggi sottoposta ad una crescente pressione concorrenziale dalla grande distribuzione organizzata.
Negli ultimi anni, in Europa e anche in Italia i tentativi in questa direzione non sono mancati. Città come Milano, Bologna, Vicenza, Padova hanno avviato iniziative di studio per capire come organizzare un sistema logistico-distributivo più efficiente, con particolare riferimento all’area storica che è anche la più fragile dal punto di vista ambientale. L’idea è stata quella di individuare una o più piattaforme di smistamento delle merci per il consolidamento dei carichi diretti al centro storico, con servizi navetta effettuati attraverso mezzi a basso impatto.
In pratica, la piattaforma di logistica urbana (Logistics City Centre) svolgerebbe il ruolo di Transit Point urbano sul quale far convergere i flussi di merci e documenti proveniente dalla diverse direttrici esterne.
Invece che raggiungere con i singoli mezzi la destinazione finale – che nelle aree del centro storico è del resto regolamentata da fasce orarie e da permessi a pagamento – le merci verrebbero caricate su vettori gestiti da una agenzia locale (pubblica, consortile o privata convenzionata) che dovrebbe provvedere al servizio di distribuzione ottimizzando gli itinerari di consegna e, al limite, svolgendo anche la raccolta degli imballi.
L’idea, sulla carta, sembra razionale.
In realtà, le difficoltà di tradurre questa idea in un concreto quadro di iniziative sono ancora notevoli. Innanzitutto le rotture di carico vengono a gravare sui costi logistici, e se non si chiarisce chi deve pagare questi costi aggiuntivi – o in quale misura il servizio crea delle convenienze economiche – non sarà facile convincere commercianti e autotrasportatori ad aderire al progetto. In secondo luogo, l’intermediazione nel Transit Point interrompe la continuità del contratto di servizio logistico che, nei casi in cui la consegna è garantita, rischia di creare numerosi contenziosi. In terzo luogo, molte filiere logistiche rilevanti in ambito urbano non potrebbero comunque venire coinvolte dal servizio, come nel caso del freddo, del fresco e, in generale del grocery, dove persiste il conto proprio e la tentata vendita.
Alcuni problemi ci sarebbero anche con i porta valori e le merci preziose, i documenti riservati, la farmaceutica, la distribuzione di libri e giornali, dove i servizi dedicati non sono sostituibili. Tuttavia, anche a fronte di questi problemi, alcune azioni sono forse possibili. E le soluzioni possono essere trovate guardando a come il commercio sarà in futuro più che a come è adesso.
Così, i Logistic City Centers possono diventare piattaforme per organizzare la preparazione e consegna a domicilio delle merci acquistate nei negozi dei centri storici così come nei Mall virtuali dell’e-commerce.
In altri termini, il miglioramento della rete logistico-distributiva nelle città si potrà ottenere quando si modificheranno anche gli stili di consumo, obiettivo che sarà più facile raggiungere accompagnando le iniziative con politiche aggressive di marketing urbano e una maggiore diffusione delle tecnologie di rete. Così come abbiamo visto nel campo della logistica di distretto, anche per quella urbana le tecnologie di comunicazione digitale si dimostrano dunque uno strumento fondamentale per raggiungere risultati efficienti.

4.2. Le condizioni di governance per un progetto di City Logistics

Un progetto City Logistics per una realtà urbana come Mantova ha come obiettivo quello di individuare un insieme di interventi infrastrutturali e di servizio mediante i quali raggiungere una maggiore efficienza complessiva nel sistema di movimentazione delle merci all’interno del Centro storico, riducendo l’impatto ambientale delle attività di trasporto pur mantenendo o elevando i livelli di accessibilità. Come si è già ricordato, una prospettiva di questo tipo è stata adottata da diverse città europee, dove i progetti di City Logistics cominciano ad assumere una certa consistenza e possono così costituire una prima base di esperienze, sia pure ancora sperimentali, dalle quali trarre utili indicazioni per avviare con maggiore consapevolezza iniziative analoghe.
Un aspetto che, alla luce di queste esperienze, sembra assumere un ruolo cruciale è quello del metodo concertativo: data l’elevata complessità degli attori e delle problematiche coinvolte in un progetto di City Logistics sarebbe assolutamente illusorio pensare che un progetto di razionalizzazione nella movimentazione delle merci possa venire disegnato da un gruppo di esperti esclusivamente sulla base di specifiche tecniche e implementato senza il coinvolgimento attivo degli utilizzatori.
Un progetto di City Logistics tocca infatti aspetti relativi al sistema della mobilità ma anche della rete distributiva del commercio; comporta interventi infrastrutturali ma anche sulle regole e gli orari di accesso alle aree centrali; presuppone innovazioni sulle tecnologie di trasporto e comunicazione ma anche sulla struttura di mercato dell’offerta logistica.
Ciò che le esperienze europee insegnano è, invece, che l’obiettivo di migliorare l’efficienza del trasporto merci in ambito urbano è raggiungibile a condizione che l’Amministrazione pubblica sia in grado di costruire un accordo di medio periodo con i principali attori coinvolti nel sistema logistico e distributivo del Centro Storico – in particolare con gli operatori commerciali e le relative Associazioni di rappresentanza, nonché con alcuni operatori dell’offerta di trasporto – e riesca ad attivare un vero tavolo di concertazione con il compito di monitorare la realizzazione degli interventi e individuare le soluzioni logistiche di volta in volte più opportune.

4.3. I punti chiave di un progetto per la logistica urbana

Un progetto di City Logistics per la città di Mantova dovrebbe partire da un primo dimensionamento dei flussi di penetrazione nella città e dall’analisi delle filiere commerciali presenti nel Centro Storico.
Tali attività di ricerca presuppongono tempi e costi incompatibili con l’economia del presente Rapporto di consulenza. Tuttavia, sulla scorta di altre esperienze in corso in città di dimensioni comparabili con Mantova, si è ritenuto di sviluppare alcune considerazioni di ordine metodologico che possono risultare utili ad impostare, una volta valutata l’opportunità, un progetto completo di City Logistics.
Qui di seguito esporremo allora i principali punti chiave che dovrebbe caratterizzare un progetto di City Logistics, che può intendersi come ipotesi per una “Carta dei servizi logistici” attivabili per il Centro Storico di Mantova.

4.3.1. Individuazione di uno spazio con funzione di transit point

L’obiettivo di un progetto di City Logistics è innanzitutto quello di ridurre il traffico commerciale in entrata nel Centro Storico. Per ottenere questo risultato il metodo più accreditato, anche sulla base delle esperienze finora effettuate in alcune città europee, è quello di “consolidare” i flussi in entrata, facendoli convergere verso un unico punto di raccolta (o anche più punti, se le dimensioni dei flussi lo rendono necessario) localizzato in prossimità del centro urbano e facilmente raggiungibile da mezzi provenienti dagli assi viari principali.
L’individuazione di un sito adatto a svolgere le funzioni indicate è un momento importante e delicato che deve essere affrontato già nella fase iniziale del progetto. Da questo punto di raccolta, infatti, le merci possono venire consegnate alle singole destinazioni (negozi, laboratori, uffici, banche, singole abitazioni) attraverso sistemi a basso impatto oppure con un unico mezzo che svolge servizio integrato di consegna per tutti gli operatori convenzionati.
Uno spazio operativo di questo tipo può essere costituito da un magazzino di transito in cui le merci provenienti da diversi vettori di trasporto (conto proprio o conto terzi, sulla base delle diverse condizioni delle filiere logistiche e merceologiche) sostano solo il tempo necessario ad essere consolidate e/o reinstradate con mezzi dedicati alla consegna finale.
Ad esempio, una funzione di questo genere può essere svolta da strutture leggere situate all’interno di alcuni parcheggi centrali, ma possono essere previste infrastrutture più complesse che si integrano a servizi esistenti o in corso di realizzazione, come i Magazzini generali o la piattaforma dell’Interporto situata in prossimità del capoluogo.
Va tuttavia considerato che, soprattutto in questa seconda ipotesi, sorgono inevitabilmente problemi di costo e organizzazione dei servizi di trasporto di cui, come testimoniano le esperienze internazionali analizzate, è necessario essere consapevoli per evitare di percorrere soluzioni che possono alla fine rivelarsi poco efficaci.
Innanzitutto, le rotture di carico conseguenti al passaggio da un mezzo (quello della ditta che fornisce la merce richiesta) ad un altro (quello del servizio di consegna finale al punto di destinazione in Centro Storico) generano un aumento del costo di trasporto che – sulla base di stime effettuate da Confetra – può arrivare anche a raddoppiarne l’entità.
In secondo luogo, è evidente che un sia pur limitato periodo di ferma delle merci nel transit-point può creare problemi organizzativi e l’allungamento dei tempi di consegna non sempre compatibili con le crescenti esigenze just-in-time del commercio al dettaglio.
Ma si pone anche un terzo ordine di problemi, che viene generalmente posto proprio dagli operatori logistici più qualificati: l’interruzione della catena logistica che lega, anche contrattualmente, il committente del servizio di trasporto (che può essere il singolo negoziante oppure il fornitore franco-destino) con l’operatore di tale servizio (in particolare gli express-courier) crea una discontinuità nella garanzia della consegna che, invece, costituisce una delle condizioni fondamentali della qualità del servizio offerto.
In altri termini, con la consegna al transit-point invece che al destinatario finale, l’operatore del servizio di trasporto si trova nelle condizioni di perdere il contatto diretto con il contraente del servizio stesso, e dunque non gli è possibile certificare le condizioni di puntualità e integrità della merce pattuite nel contratto di trasporto.
Questi problemi, e in particolare l’ultimo al quale abbiamo fatto cenno, non sono di per sé irrisolvibili, ma certamente sono fonte di complessità di cui è necessario tenere conto. Una ipotesi per assicurare la continuità contrattuale della catena logistica è, ad esempio, quella di far prelevare direttamente al negoziante o al destinatario delle merci (che possono essere anche plichi, documenti, ecc., per cui si usa il termine “cose”) le consegne nel transit-point.
Già oggi questa pratica è utilizzata da alcuni express-courier che hanno individuato in alcune reti commerciali (ad esempio nei negozi Buffetti, oppure in accordo con alcuni edicolanti) dei punti di consegna e prelievo delle “cose” trasportate.
In questi punti (che svolgono di fatto funzione di pick up and delivery point) avviene, dunque, un contatto mediato – nel tempo e nello spazio – tra fornitore del servizio di trasporto e utilizzatore finale.
La condizione perché tale meccanismo funzioni è che i transit-point siano relativamente diffusi o, comunque, prossimi all’utilizzatore finale del servizio (che può ritirare ma anche inoltrare merci e cose).
In riferimento al problema del commercio in Centro Storico, la soluzione può quindi essere individuata attraverso una piattaforma articolata di transit-point in corrispondenza di parcheggi centrali o di altre strutture a ridosso del Centro Storico.
In questo modo, i negozianti potrebbero raggiungere direttamente il punto di raccolta in fasce orarie prestabilite utilizzando mezzi propri (al limite anche a piedi con carrello, se le distanze lo consentono), oppure con mezzi consorziati a basso impatto inquinante, come piccoli furgoni elettrici che l’Amministrazione comunale e le aziende di trasporto pubblico locale potrebbero mettere a disposizione chiamando ad una partecipazione i commercianti e le loro Associazioni.
Ipotesi più spinte di razionalizzazione – come la creazione di un servizio convenzionato (o anche autogestito in consorzio dai commercianti) per la gestione della distribuzione finale dai transit-point ai destinatari, oppure la predisposizione di sistemi di comunicazione elettronica che ricreano “virtualmente” il collegamento diretto tra fornitore, trasportatore e destinatario finale della merce – risultano nell’immediato di più difficile attuazione, anche se in prospettiva potrebbe venire effettuata una prima fase di sperimentazione e apprendimento sviluppata con tecniche più semplici.
Va per altro considerato che la predisposizione di adeguati ausili informativi e multimediali potrebbe trovare un fertile incontro con i progetti di “commercio elettronico” che tutte le principali associazioni di rappresentanza (Industriali, artigiani, commercianti) stanno sviluppando nella realtà mantovana.
E’ evidente, in ogni caso, che rispetto alla situazione attuale anche una soluzione ridotta consentirebbe una significativa riduzione del traffico commerciale nelle vie del Centro Storico e, in particolare, un miglioramento delle condizioni di impatto ambientale – atmosferico, acustico, estetico – che, alla fine, avrebbe come effetto quello di migliorare l’immagine complessiva e l’attrattività stessa del Centro Storico, con evidenti benefici sia per le attività commerciali che turistiche.
D’altro canto, mentre è facile ritenere che il cambiamento dell’attuale regime di consegna comporterebbe per i singoli commercianti un aumento di problemi gestionali (e, indirettamente, anche di costi, anche se questo è un aspetto da approfondire caso per caso), dall’altro va considerato che l’avvio di un progetto di razionalizzazione logistica si può accompagnare ad una estensione – e, al limite, all’eliminazione – delle attuali fasce orarie e del relativo regime dei permessi che vincola la flessibilità degli approvvigionamenti commerciali.

4.3.2. Consegne con mezzi a basso impatto inquinante

Nel corso di indagini svolte presso i fornitori di servizi logistici specializzati – fra i quali va considerato anche il servizio postale – sono emerse anche soluzioni diverse, che in parte possono anticipare e successivamente integrare quelle fin qui proposte. Tali soluzioni comportano un limitato intervento infrastrutturale e non cambiano in modo significativo i modelli gestionali delle consegne per le attività commerciali e di servizio (studi professionali, banche, assicurazioni ecc.) presenti del Centro Storico.
L’idea di base è che ridurre il traffico significa, innanzitutto, diminuire sia il carico inquinante prodotto dalla combustione, sia l’inquinamento acustico. Perciò, se uno sforzo in tal senso venisse intanto assicurato dai principali operatori di trasporto interessati alle consegne in Centro Storico, si potrebbero raggiungere significativi miglioramenti delle condizioni ambientali, riducendo alla radice almeno alcuni dei problemi (quelli dell’inquinamento, appunto, ma non quelli di congestione) sui quali il progetto di City logistics dovrebbe intervenire.
Tale risultato può essere ottenuto incentivando l’utilizzo di mezzi a basso impatto o addirittura a impatto nullo come quelli elettrici. Il problema per quanto riguarda questi ultimi è legato alla loro scarsa autonomia e al loro costo elevato, il che spiega le ragioni di un loro scarso utilizzo da parte degli operatori di trasporto.
Tuttavia, alcune verifiche effettuate hanno messo in luce che questo problema è tutto sommato superabile nel caso di Mantova, in relazione alla modesta dimensione dell’area urbana e alla possibilità di utilizzare tali mezzi anche in chiave promozionale. Alcuni operatori logistici internazionali che già oggi effettuano un numero consistente di consegne e prelievi in Centro Storico può infatti offrire la propria disponibilità all’utilizzo di mezzi elettrici che, per altro, fanno già parte del parco vetture del gruppo, anche se originariamente destinati ad altre realtà urbane.
Il Centro Storico di Mantova sarebbe in una situazione ideale per l’economia di esercizio dei mezzi elettrici (la cui autonomia non supera i 70 chilometri), considerato che le piattaforme logistiche dei principali operatori del settore potrebbero trovare spazio in prossimità del Centro, magari proprio all’interno delle aree dell’Interporto.
Le condizioni per favorire l’adesione a progetti di questo tipo, rendendo conveniente anche in termini di funzione di costo l’utilizzo di mezzi a basso impatto inquinante, sono essenzialmente due:

  • la prima è relativa ad una maggiore flessibilità degli orari di accesso nelle Zone pedonalizzate e a traffico limitato, nonché ad una semplificazione delle procedure per ottenere i permessi;
  • la seconda alla possibilità di utilizzare a fini “promozionali” il servizio con mezzi elettrici, in particolare abbinando il marchio del fornitore dei servizi con quello di una città dalle qualità urbane riconosciute a livello mondiale qual è senza dubbio Mantova.

Questo secondo aspetto potrebbe concretizzarsi con un apposito “logo”, da concordare con l’Amministrazione Comunale, attraverso il quale verrebbero esternamente riconosciuti i mezzi elettrici delle aziende convenzionate.
In questo modo, il ritorno di investimento dell’azienda di trasporto verrebbe misurato attraverso l’abbinamento della propria immagine con quella del rispetto ambientale e della valorizzazione del patrimonio storico-architettonico delle città d’arte.
E’ evidente che tale interesse è espresso da aziende di trasporto che hanno un raggio d’azione nazionale e internazionale (che potrebbero così veicolare l’abbinamento della propria immagine sui mercati mondiali), molto meno da parte di piccoli operatori locali.
Per quanto invece riguarda l’estensione delle fasce orarie e la facilitazione delle procedure dei permessi, sarebbe necessario effettuare una verifica presso il Comando dei vigili urbani di Mantova.
D’altro canto, se i vincoli d’orario e la procedura dei permessi per le Zone a traffico limitato è stata congegnata proprio per assicurare il rispetto di adeguate condizioni ambientali, il venire meno del problema (o una riduzione delle sue dimensioni) può essere la premessa per ridiscutere il sistema dei vincoli.
Anche l’operatore Poste Italiane ha avanzato in alcune città ipotesi simili, anche se non ci risulta si siano poi realizzate iniziative conseguenti. Si tratta in ogni caso di riconsiderare queste proposte all’interno di un piano concertato per la razionalizzazione logistica delle attività commerciali e il trasporto di merci in ambito urbano, valutando anche la possibilità di velocizzare la procedura dei permessi mediante adeguati ausili informatici.
Anche in questo caso, dunque, siamo di fronte ad un problema che può essere affrontato contestualmente a progetti di diffusione delle tecnologie di rete in ambito urbano.
In realtà, è necessario sottolineare che la questione qui sollevata ha un peso rilevante anche in termini politici, in quanto l’impatto di queste scelte riguarda inevitabilmente una pluralità di soggetti – come i residenti in Centro Storico – che non partecipano direttamente alla definizione del “patto logistico”. Così come, d’altro canto, è opportuno considerare i possibili cambiamenti nelle condizioni organizzative e di mercato indotti da queste scelte: se l’accordo viene stipulato solo con alcuni operatori (ad esempio alcuni express courier) e non con altri (piccole aziende di trasporto locale), i primi saranno probabilmente avvantaggiati, oltre che nella politica d’immagine, anche nella fornitura dei servizi, grazie all’ampliamento delle fasce orarie e alla facilitazione nei permessi.
In sede di approfondimento di un piano di City Logistics bisognerà tenere conto di questi aspetti, sempre in un ottica costi/benefici per la città e i suoi abitanti.

4.3.3. Utilizzo del sistema anche per le consegne a domicilio come strumento per incentivare la frequentazione commerciale del Centro Storico

Un problema che da tempo riveste un certo rilievo critico la tenuta dell’offerta commerciale nei Centri Storici è la concorrenza dei grandi centri commerciali a libero servizio (Gdo, supermercati, ipermercati, città mercato, ecc.) localizzati nella periferia urbana e, dunque, più facilmente raggiungibili con l’auto.
E’ in questi centri dove oramai è diventato uso comune fare acquisti di una certa importanza – sia per dimensione che per valore, in particolare per alcune merceologie a maggiore ingombro, come mobili, casalinghi, elettrodomestici, oppure di grandi pacchi in occasione di festività o nei periodi di saldi, ecc. – anche perché l’accessibilità automobilistica diretta, resa possibile dalla disponibilità di larghe aree a parcheggio, consente di caricare la merce sul proprio veicolo immediatamente dopo l’acquisto.
Per rispondere alla crescente pressione concorrenziale della grande distribuzione organizzata, gli operatori commerciali ritengono generalmente che sia sufficiente dotare anche la zona del Centro Storico di un maggior numero di aree di sosta.
Il confronto con alcuni esponenti delle associazioni del commercio di Mantova hanno confermato in pieno questa rappresentazione del problema. In realtà, tutte le indagini svolte presso i consumatori sembrano restituire pareri piuttosto diversi, e la disponibilità di parcheggi viene indicata come una variabile generalmente non decisiva nella scelta del luogo dove fare acquisti.
Non vogliamo in questa sede entrare nel merito di una discussione urbanistica e di cambiamento dei modelli di consumo che è fuori tema rispetto al nostro argomento.
Tuttavia, possiamo osservare che, per quanto si ampli il numero dei parcheggi centrali, difficilmente si risolve il problema dell’accessibilità automobilistica in un area, come il Centro Storico di Mantova, la cui struttura non consentirebbe comunque, nella maggior parte dei casi, di raggiungere direttamente il punto di vendita. Sempre che non si intenda snaturare profondamente il valore ambientale e urbano del Centro Storico, che – oltre a rilevanti problemi di ordine culturale – alla fine avrebbe come esito quello di ridurre anche la sua attrattività commerciale. In realtà, come dimostrano le esperienze di quasi tutte le città europee, è assai difficile oggi pensare di risolvere il problema dei parcheggi nei Centri Storici con più parcheggi, bensì con un modo diverso di utilizzo dello spazio urbano e di organizzazione delle sue relazioni.
Il problema dell’accessibilità dei consumatori in Centro Storico deve dunque essere affrontata in modo diverso. L’obiettivo è quello di facilitare le condizioni di mobilità a coloro che intendono effettuare acquisti nelle strutture commerciali del centro, offrendo un servizio di consegna delle merci a domicilio, in particolare se si tratta di oggetti ingombranti o di peso elevato.
Un servizio di questo genere potrebbe essere fornito in vari modi. Ad esempio, dalla stessa struttura convenzionata che si occupa della consegna della merce agli operatori commerciali (servizio che gli stessi centri commerciali periferici mettono oggi a disposizione). Oppure, organizzando nei parcheggi di destinazione centrale ma, soprattutto, in quelli di interscambio aree di consegna delle merci a maggiore ingombro.
Ipotesi di questo tipo sono state formulate, nel recente passato, dalle stesse associazioni dei commercianti di Mantova.
Anche questa, dunque, è un’idea che potrebbe essere ripresa e rilanciata in occasione di un piano integrato di City logistics, tenendo in considerazione che gli stessi operatori di trasporto coinvolgibili nel progetto possono apportare un contributo specifico alla realizzazione dell’iniziativa.
Un’operazione di questo genere potrebbe non solo rilanciare l’attrattività dell’attuale offerta commerciale del Centro Storico di Mantova ma anche porre le basi per il reinsediamento in centro di merceologie – come quelle dell’arredo di qualità, degli elettrodomestici, dell’elettronica, ecc. – che oggi non trova le condizioni di accessibilità sufficienti per poter svolgere un’attività remunerativa.
Va infine considerato, sempre in ordine al problema della consegna a domicilio delle merci, che la frequentazione del Centro Storico da parte di turisti stranieri – data la notorietà internazionale della città di Mantova, esaltata dall’organizzazione di manifestazioni artistiche e culturali di notevole rilievo – pone l’opportunità di servire reti di distribuzione a lungo raggio come condizione per un’offerta commerciale di qualità.
Alcuni operatori logistici da noi intervistati stanno già organizzando per alcune città d’arte italiane un servizio di questo genere, proponendo ai clienti stranieri che intendono fare acquisti nelle filiere commerciali specializzate – come i vetri artistici di Murano, la gioielleria e la pelletteria fiorentina, le ceramiche artistiche napoletane, ecc. – la possibilità di ricevere direttamente a casa i prodotti comperati durante il viaggio. Per quanto questo tipo di servizio possa essere oggi ritenuto meno rilevante per la città di Mantova, in relazione agli ancora modesti flussi turistici che attraversano il Centro a fini commerciali, va anche detto che un’iniziativa del genere, per altro priva di costi diretti, potrebbe in prospettiva svolgere una funzione promozionale, soprattutto se accompagnata ad eventi cittadini di livello internazionale.
Inoltre, va ricordato ancora una volta che un modello di organizzazione logistico-distributiva simile si sta affermando nel campo del “commercio elettronico” (B2C), per cui anche da questo punto di vista una sperimentazione in tale direzione potrebbe costituire un’occasione di apprendimento e di anticipazione di scenari futuri.

4.3.4. Costo zero per gli utilizzatori dei servizi logistici (commercianti)

L’adesione al progetto di City logistics implica senz’altro un elevato grado di consapevolezza e di partecipazione, ma ciò non è sufficiente se poi se ne scaricano i costi solo su alcuni utenti, in particolare negli operatori commerciali del Centro Storico. D’altra parte i vantaggi di una riduzione del traffico in Centro Storico si riversano sull’intera cittadinanza, rappresentando una tipica esternalità positiva di cui possono godere anche coloro che non si assumono direttamente gli oneri della sua produzione.
Perciò, è necessario che l’Amministrazione pubblica valuti attentamente in che modo l’intera cittadinanza potrà partecipare ai costi dell’operazione, contabilizzando gli eventuali oneri aggiuntivi che gli operatori commerciali dovranno sopportare con l’attuazione del progetto.
Il come e il modo sono naturalmente da discutere, e questo richiama ancora una volta l’esigenza di una decisione politica, che il progetto in corso di realizzazione può aiutare ad assumere ma che non può certo determinare.
Tuttavia, già a questo livello è possibile indicare, oltre al contributo diretto dell’Amministrazione pubblica, tre possibili fonti di sostegno economico per la realizzazione di un progetto innovativo di City Logistics:

  • innanzitutto gli stessi commercianti possono valutare, all’interno di un piano di marketing urbano che per la città di Mantova è già stato peraltro formulato, il ritorno dell’investimento diretto in termini di maggiore flessibilità delle consegne, ulteriore accessibilità dei consumatori e miglioramento dell’immagine complessiva del Centro Storico;
  • in secondo luogo, le aziende di servizio pubblico locale – in particolare le Aziende della mobilità urbana, dell’Ambiente e dell’Elettricità – possono avere un interesse a sostenere finanziariamente questo piano nell’ottica di una ottimizzazione della gestione dei parcheggi e delle condizioni di utilizzo dei mezzi pubblici, nella vendita di energia elettrica per mezzi di trasporto e, più in generale, nel miglioramento della qualità ambientale dell’area urbana;
  • in terzo luogo, una fonte di finanziamento del progetto potrà essere ricercata nei numerosi programmi comunitari di sostegno alle politiche ambientali e di miglioramento del trasporto urbano (in questo senso possono risultare utili i confronti con l’esperienza delle Amministrazioni di Padova e di Bologna che stanno attuando iniziative simili con contributi UE).

Nella stesura finale di un progetto di City logistics vanno dunque effettuate opportune verifiche in queste direzioni, mettendo a disposizione gli elementi necessari per avviare la realizzazione delle iniziative potendo contare, per quanto possibile, su un quadro certo di risorse disponibili.

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